Nel 1994 lo studioso francese Pierre Lèvy diede risalto al concetto di “intelligenza collettiva” legata al cyberspazio. L’affermazione delle nuove tecnologie di comunicazione doveva servire a favorire la connessione tra gli esseri umani potenziandone le possibilità di comprensione e di saper fare. A circa 25 anni da quella definizione più che di intelligenza collettiva dobbiamo parlare di “follia collettiva”, di un impazzimento generale in cui la ragione è stata completamente oscurata. È in questo perimetro che si collocano l’hatespeech, le fakenews e una politica fondata non sui fatti concreti ma sul “sentiment”. È la famosa Bestia, il sistema di monitoraggio dell’opinione pubblica che consente ( consentiva?) a Matteo Salvini di mettersi in connessione sentimentale con il suo popolo sulla base dell’umore dominante.

Da Trump a Putin, passando per il nostro ex ministro dell’Interno, le forze populiste e sovraniste si caratterizzano per questa capacità di sfruttare al massimo le caratteristiche della rete. Siamo oltre il Grande Fratello di George Orwell: il controllo è un sistema che non agisce dall’esterno, ma determina un mutamento profondo delle caratteristiche stesse dell’essere umano. Non c’è un’imposizione vissuta come obbligo, ma un diktat che i cittadini agiscono ed esercitano in prima persona. Per questo è difficile. Non basta buttare giù il despota, perché il tiranno rappresenta spesso, meglio di chiunque altro, quello che le persone pensano e vogliono. È proprio quel pensiero che va modificato. Ma per modificarlo va intanto studiato.

È quello che fa William Davies nel saggio Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo ( Einaudi, pp. 362, euro 18.50). Davies, che insegna sociologia ed economia politica a Londra, cerca di capire perché si è passati dalla supremazia della ragione alla sua totale inflazione. Come possibile, si chiede, che il “cogito ergo sum” di Cartesio oggi valga poco o nulla e le élite che rappresentano la conoscenza nei diversi settori abbiano così scarso appeal e successo?

Per rispondere a questa domanda il sociologo fa un’attenta disamina del pensiero occidentale dal 1600 ad oggi e parla di “democrazia delle emozioni”. Due più due non fa più quattro perché è saltato il meccanismo della democrazia della rappresentanza che regolava i rapporti e la logica prima dell’avvento di internet. Ma Davies, che si sofferma a lungo su Hobbes, non cade nella trappola di contrapporre in maniera netta ragione e sentimento. E cerca di individuare una strada che sia un’uscita dal populismo senza perdere di vista le paure delle persone.

«Internet - scrive l’autore - si è rivelata molto efficace nel minacciare le istituzioni democratiche stabilite, molto meno quando si tratta di costruirne di nuove. È in grado di abbattere i vecchi sistemi di rappresentazione, ma resta da vedere se ( e quali) nuove strutture li sostituiranno. In questo discorso rientrano gli attacchi ai “media tradizionali”, che con il loro supposto impegno nei confronti di “imparzialità” e “oggettività” sono facilmente oggetto di scherno e denuncia a causa dell’ipocrisia o dei privilegi dei singoli giornalisti».

La parte più interessante del libro, ma per paradosso anche la più debole, è quella in cui Davies sostiene che «i fatti da soli non ci salveranno». Cioè non serve invocare oggettività e ragione per uscire dalla crisi mondiale che stiamo attraversando. Anzi. Per l’autore di Stati nervosi questa situazione potrebbe essere un’occasione.

«Quale speranza ci resta - scrive - nel momento in cui la frontiera del controllo tecnologico sulla natura continua a spostarsi e una prospettiva di allungamento della vita è sempre più personale e riservata a una minoranza? Per la mente razionalista, progresso significa soltanto avere di più... Ma la paura, il dolore e il risentimento non sono mai stati eliminati del tutto, né possono essere messi a tacere nel lungo periodo. In un periodo in cui queste caratteristiche intrinseche degli esseri umani sembrano di nuovo avere invaso la politica, dobbiamo cogliere l’occasione per ascoltarle e capirle, in alternativa a una contrapposizione tra più fatti da una parte e più bugie dall’altra».

L’intuizione di Davies è giusta e richiama molte analisi che da Freud arrivano al pensiero femminista sia sul rapporto mente e corpo, sia sugli elementi di irrazionalità che spesso muovono le scelte politiche. Ma oggi cosa vuol dire ascoltare e capire le pulsioni della folla? Senza cadere in banali contrapposizioni la sfida resta sempre quella di ridare valore e significato alle istituzioni e alle conoscenze della cultura democratica. Di meglio non abbiamo ancora trovato nulla. Di peggio abbiamo purtroppo sperimentato tantissimo.