Tra Roma e l’isola di San Cristobal nelle Galapagos ci sono 11 mila chilometri e spiccioli di distanza. E una quindicina di ore di volo, per forza di cose suddivise in almeno tre tratte e due giorni. Già di per se una bella avventura.

In queste coordinate ho inquadrato le mie vacanze, un po’ turismo e un po’ volontariato per la conservazione dell’ambiente. Premetto che per imbarcarsi in un progetto del genere ci vuole una certa tempra fisica e uno spirito di adattamento adeguato, perché lavorare con gli animali e nella natura può essere imprevedibile e in questi luoghi spesso i concetti di civiltà e comodità sono diversi dal nostro, ma offrono prospettive altrimenti non praticabili.

Il mio programma di volontariato, per esempio, prevedeva l’accudimento delle tartarughe di terra della riserva Gualapagueira. Centinaia di tartarughe, dalle neonate alle 55 centenarie, da nutrire e pulire quotidianamente e, nel caso delle adulte, pesare e misurare ( operazione, questa, da ripetere ogni sei mesi). Mentre le piccoline vivono in gabbie o recinti, a seconda delle dimensioni, le grandi sono libere nella riserva.

Il loro cibo è composto da otoy, piante piene di acqua dette anche orecchie di elefante, che vanno raccolte con tanto di machete in posti spesso assai disagiati come paludi e rive dei torrenti, dalle quali si riemerge con pile da 25- 30 kg sulle spalle e inzaccherati di fango tanto da non poter quasi liberare gli stivali.

Le grandi tartarughe si radunano in una specie di mensa all’aperto, dove attaccano foglie e radici con estrema voracità e una aggressività reciproca tutta preistorica.

Per le più giovani, invece, bisogna tagliare una specie di insalata, ma in quantità enormi. L’operazione più disagevole però è quella di verificarne la crescita.

Alcune pesano anche 150 kg e vanno sollevate con una bilancia del tipo di quella per pesare le valigie. Prima però bisogna trovarle. Facile per le prime, ma scovare le più ritrose richiede una estenuante caccia nella boscaglia, un po’ a caso.

C’è da osservare che i metodi scientifici e razionali sono ancora da mettere a punto.

Occuparsi dei leoni marini è tutta un’altra storia. Si tratta di monitorare i loro spostamenti sulle varie spiagge dell’isola. O, eventualmente, da isola a isola. Ma, dato che solo pochi di loro sono identificati con una targhetta di colore differente a seconda del luogo di provenienza, la faccenda è alquanto approssimativa. In ogni caso, tre mattine alla settimana si parte alle cinque, buio pesto, per le spiagge, si contano le femmine, i giovani, i maschi subalterni e si individua il maschio alfa. Di solito uno per branco. Oppure due, intenti a litigare ferocemente o di guardia ai due estremi della baia.

I sea lions sono ancora animali a rischio, sebbene sia stata definitivamente eliminata la caccia.

La bellezza di trovarsi nell’ombelico della biodiversità, dove Darwin più o meno vide la luce dell’evoluzione, sta nel fatto che gli animali sono perfettamente consapevoli di essere al sicuro, ma non sono stati contaminati dall’uomo. I sea lions, per esempio, sono ovunque. Al porto, per strada, sulle banchine, ma mai chiedono cibo o si avvicinano per giocare. Talvolta nuotano con i bagnanti, ma come fanno i delfini. Se decidono di sdraiarsi in mezzo al passaggio, bisogna scavalcarli o cambiare strada.

Vivono in armonia con i grandi granchi rossi e turchesi, o quelli neri come la lava delle rocce sull’oceano, niente liti con le colonie di iguane marine, sempre a caccia di pesce o spaparanzate sulla sabbia stremate dalle lunghe immersioni ( anche 30 metri) per nutrirsi.

Qualche screzio invece si può creare con i blue footed frigates, le sule dai piedi azzurri che sembrano cartoni animati. Loro hanno l’abitudine di tuffarsi in acqua a perpendicolo dal cielo, ma se non trovarono subito una preda, non disdegnano di rubare il cibo di bocca ai sea lions, che non la prendono bene.

Sono scene quotidiane, ovunque si incontrano animali confidenti, ma non socievoli. Stanno nel loro, si godono le Galapagos come farebbero tutti.

Delle 15 isole dell’arcipelago, alcune sono praticamente schegge vulcaniche in mezzo al nulla. Le tre maggiori sono le uniche abitate. Santa Cruz, la più mondana e turistica, Isabela molto grande ma spartana e pochissimo abitata e San Cristobal che rappresenta l’ideale via di mezzo.

Tra le esperienze indimenticabili, senza dare connotazioni positive o negative, c’è quella di aver nuotato due volte tra gli squali. Il fondale fa la differenza. Basso e trasparente a Isla isabela, gli squali si cullavano languidi e come in trance, non davano pensiero. Blu cupo fino al centro della terra intorno allo squarcio della Kicker rock, emersa in mezzo al profondo dell’oceano Pacifico: qui gli squali si agitano peripatetici e irrequieti.

Da non ripetere senza consapevolezza. Resta da notare il clima. Il passaggio repentino da estate a inverno nel giro di cinque chilometri o cinque minuti, qui si vive nelle nuvole, c’è umido e pioggia e il clima equatoriale caldo e soleggiato si vede solamente a tratti.