La giornata di ieri, per l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, è stata forse la più nera degli ultimi tempi. Dopo aver perso la poltrona al Viminale, proprio nel giorno del giuramento del nuovo esecutivo, il leader della Lega ha visto anche i suoi più grandi “nemici” segnare un punto.

Da un lato Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, che ieri pomeriggio è tornato nella città dei Bronzi, dopo 11 mesi di divieto di dimora stabilito nell’ambito del processo “Xenia”, che lo vede accusato, tra le altre cose, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e truffa sui fondi per l’accoglienza. Dall’altro Carola Rackete, che a luglio scorso lo ha denunciato per diffamazione e istigazione all’odio, accuse per le quali ora Salvini è indagato.

Una coincidenza, senza dubbio, ma quasi un segno del destino. O del karma, verrebbe da dire. E Salvini prova a rispondere al Karma con la manifestazione del 19 ottobre, quando la Lega sarà in piazza contro il Conte2. Una «piazza pacifica - ha giurato - perché noi ci portiamo i papà, le mamme, mica siamo i centri sociali, i delinquenti di sinistra che tirano le molotov ai poliziotti».

A “liberare” Lucano ci ha pensato il tribunale di Locri, con un atto firmato dallo stesso giudice che deciderà se l’ex sindaco è colpevole o innocente, Fulvio Accurso. Non c’è motivo, dice il giudice, di tenerlo lontano da Riace, dato che ormai da mesi non è più sindaco e dato che la sua candidatura a consigliere non ha superato lo scoglio delle elezioni. La tanto millantata influenza che lo avrebbe reso pericoloso, riproposta dalla procura che si è opposta alla richiesta di revoca, dunque, non esiste.

«Sono sempre stato un uomo libero - commenta Lucano - perché potevo muovermi. Ma la libertà non è solo un luogo, è anche un posto dell’anima. Sono felice, non me l’aspettavo e non me l’aspettavo proprio oggi. Ma ho subito un’ingiustizia per molto tempo, ho subito il fango delle falsità che mi sono state riversate addosso senza un perché. Anzi, solo per distruggere un’idea, che spaventava chi voleva un mondo diverso da come lo immagino io, un mondo dove siamo tutti uguali e dove chi scappa dalla guerra va aiutato e non trattato come un nemico». Lucano pensa a Salvini, ma pensa anche all’ex prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari.

Colui che, con le relazioni sui progetti d’accoglienza di Riace, ha dato il via ai suoi guai giudiziari, promosso a capo Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione al Ministero dell'Interno dall’ex ministro. «Ci tengo a precisare che non una riga, nella richiesta di revoca della misura, c’era sulle condizioni di salute di mio padre e non una riga il giudice ha scritto a tal riguardo. Si è limitato a dire che quel provvedimento non aveva senso - ha aggiunto - Dopo quanto ha evidenziato la Cassazione, che ha sostanzialmente smontato le accuse, dicendo che ho agito legalmente e in buona fede, e dopo quanto evidenziato dal gip, che ha demolito le indagini, perché sono dovuto rimanere così tanto lontano da casa?».

Lucano ha raccolto le sue cose - «mi basta un borsone, ho un solo paio di scarpe», ha sottolineato - e alle 16 di ieri è salito in auto per percorrere i 10 chilometri che lo hanno separato dalla sua casa per 11 mesi. La prima tappa, però, è stata a casa del padre Roberto. «Non vedo l’ora di riabbracciarlo - ha spiegato poche ore prima di farlo - Mi spiace che per colpa mia molte persone a cui voglio bene abbiano dovuto soffrire».

Ma la giornata di Salvini è stata scandita anche dalla vicenda Rackete, spina nel fianco dell’ex ministro. «Denunciato da una comunista tedesca, traghettatrice di immigrati, che ha speronato una motovedetta della Finanza: per me è una medaglia! Io non mollo, mai», ha replicato. La denuncia riguarda la «campagna diffamatoria» nei confronti della Sea Watch Onlus, apostrofata più volte da Salvini come «un’organizzazione illegale e fuorilegge» i cui appartenenti sarebbero «complici di scafisti e trafficanti, di questi sequestratori di esseri umani».

Gli atti della denuncia sono arrivati nelle scorse settimane sul tavolo della pm Giancarla Serafini, che ora sta valutando il materiale per decidere se sentire Salvini. Nel mirino anche i profili social del leader leghista, tramite i quali più volte si era scagliato contro la comandante della nave, definita più volte «sbruffoncella», «fuorilegge», «delinquente», autrice di un atto «criminale», responsabile di un tentato omicidio in quanto «avrei provato a ammazzare cinque militari italiani». Parole che «lungi dall'essere manifestazioni di un legittimo diritto di critica, sono state aggressioni gratuite e diffamatorie alla mia persona con toni minacciosi diretti e indiretti», un «puro strumento propagandistico e istigatorio di un “discorso dell'odio”, che travolge ogni richiamo alla funzione istituzionale».