Salvini, il finito, il trapassato, il cadavere politico. Salvini che appena un mese fa era il fulcro d'Italia e oggi si trascina in un angolino oscuro. Salvini chi?

Forse la messe di commenti di questo tipo, che fioriscono sui social ma trapelano con la dovuta prudenza anche nelle analisi dei dotti, coglie nel segno. Ma forse no, ed è possibile che proprio in queste ore, tra un requiem e l'altro, il capo della Lega si stia fregando per la prima volta le mani dopo un agosto da incubo.

La logica che ha guidato le sue apparentemente sconclusionate mosse nell'ultimo mese è in realtà abbastanza ovvia. Il leghista ha tentato la spallata contando sulla sponda di Zingaretti per arrivare subito alle elezioni e quando quella sponda è venuta a mancare, in seguito allo sgambetto di Renzi, si è trovato di colpo in una situazione difficilissima.

Ha fatto la sola cosa che poteva fare: rimangiarsi molto se non tutto e riaprire le porte a un a quel punto improbabile ritorno all'alleanza gialloverde, offrendo a Di Maio la presidenza del consiglio. E' probabile che lo stesso Salvini sperasse poco in un successo dell'iniziativa. Ma con la sua riapertura ha comunque offerto ai 5S la possibilità di muoversi con due forni a disposizione, elemento che ha inciso in modo per nulla secondario sulle trattative e sui rapporti tra M5S e Pd.

Probabilmente Salvini non avrebbe potuto muoversi diversamente e la sua mossa ha effettivamente reso molto più impervio il cammino della nuova maggioranza. In cambio, però, il leader della Lega ha dovuto sacrificare buona parte del suo smalto, offrendo l'immagine di un leader indeciso, ondivago e impaurito. L'opposto esatto del quadro vigoroso e decisionista che era riuscito a imporre nei 14 mesi del governo gialloverde.

In politica, si sa, le cose cambiano in fretta. L'inglorioso quadretto di un Salvini balbettante e in retromarcia potrebbe non sfuggire alla regola. Il rischio, per lui, è soprattutto quello di un governo capace di portare in pochi mesi il Paese fuori dalla temperie isterica ed emergenziale sulla quale è basata la propaganda leghista.

Un governo che, benedetto da Bruxelles, sia in grado di varare una legge di bilancio evitando l'aumento dell'Iva senza tensioni alle stelle e minacce di procedure fine- di- mondo ma anche senza lacrime e senza sangue. Un governo infine che, sempre contando sull'appoggio della nuova commissione europea, ottenga la redistribuzione dei migranti senza bisogno di fragore e porti chiusi.

Un governo del genere, sommato all'indubbio danno d'immagine subìto dal “Capitano” sarebbe esiziale. L'ultima settimana, e in particolare le ultime 48 ore, hanno fugato o quasi quello spettro. La distanza tra Pd e l'M5S, a differenza di quella tra i soci del governo uscente, non è solo politica: è antropologica.

I 5S sono nati individuando proprio nel Pd, ancor più che in Berlusconi, il nemico principale. Il Pd li ha ricambiati con sentimenti quasi identici. La diffidenza tra i due è cronica e non resolubile. In materia di programmi, fatti salvi i titoli che come sanno tutti sono solo polvere negli occhi, la distanza è abissale.

Per quasi un anno quello gialloverde è stato un vero governo, discutibile quanto si vuole, criticabile a piacimento, fortemente connotato a destra, e tuttavia un governo. Quello “giallorosso” nasce, o nascerebbe, nelle condizioni in cui si trovava il governo Conte alla fine della sua esperienza: poi proseguirebbe lungo la china.

Entrambi i partiti non sembrano rendersi conto della portata dell'impresa che intendono affrontare e fanno il possibile per renderla più ardua. Era lecito attendersi, ad esempio, che il Pd mettesse in campo volti nuovi, col che avrebbe evitato al forse- socio l'imbarazzo di ritrovarsi, dopo un anno speso a parlare con toni da esorcista di “quelli di prima”, a braccetto con Franceschini, Gentiloni e Orlando. Macché! Dai 5S pareva ovvio aspettarsi che offrissero alla controparte segnali concreti di discontinuità, anche per evitare un'umiliazione iniziale destinata a ipotecare comunque il futuro di governo. Nemmeno a parlarne: la trattativa è stata condotta sin dall'inizio da Di Maio secondo la logica, in questo caso del tutto peregrina, del Vae Victis.

Se il governo nascerà ci sono dunque tutti gli estremi perché Salvini possa augurarsi un percorso accidentato e breve, un anno di navigazione rissosa prima della rottura, probabilmente quando i nodi arriveranno al pettine con la legge di bilancio dell'anno prossimo. Senza contare le elezioni regionali nelle roccaforti del Pd che, se perse, renderebbero panico e isteria ingovernabili. Nel frattempo, il governo Conte bis si incaricherebbe di togliere dal fuoco le castagne della prossima legge di bilancio, sollevando così il leghista dal più gravoso tra gli obblighi imminenti. Alla fine, anche ove non finisse in elezioni nel prossimo autunno come non è affatto escluso, per lui la sconfitta d'agosto potrebbe rivelarsi un affare d'oro.