La giornata di ieri è un concitato turbine di incontri annullati, cabine di regia, vertici, scontri a distanza e poi nuovi incontri. Alla fine, la sintesi che filtra dal Nazareno è una: è Luigi Di Maio a bloccare la trattativa, perchè non chiede solo il Conte bis ma anche di rimanere vicepremier.

Prima ancora che i programmi, dunque, il problema sono i nomi e uno in particolare. Accettando le condizioni di Di Maio, ragionano i dem, significherebbe riprodurre la stessa dinamica su cui è naufragato il governo gialloverde.

Senza contare che Conte è ormai a tutti gli effetti un premier politico espresso dai grillini e non più ( se mai lo è stato) un terzo super partes. Dunque, due vicepremier espressione delle due forze politiche sarebbero fuori luogo, anche perchè permetterebbe a Conte mani libere e terrebbe in gioco un Di Maio sempre più in bilico anche tra i suoi.

I dem parlano a singhiozzo, attenti a non guastare una trattativa già di per sè infilata su binari fragili.

L’unico a esporsi è il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, che fissa qualche punto fermo: «Di Maio non può pensare di fare il vice premier del nuovo governo», ma il vicepremier dovrebbe essere uno solo e di provenienza dem ( si rincorrono i nomi di Dario Franceschini e Andrea Orlando) e ancora - nella logica del “tutti un passo indietro” - «Zingaretti non farà parte di questo governo». Eppure, il ritornello è sempre lo stesso: «Non abbiamo veti nei confronti di nessuno. Siamo qui per parlare d programma».

Proprio di programma si è ripreso a parlare, però, solo dopo le 16, quando ( dopo un vertice cancellato dai 5 Stelle) i pentastellati hanno definito «positive le aperture del Pd su Conte» e acconsentito a tornare a dialogare, come da ultimatum posto dai dem.

La sensazione dentro il Pd, comunque, è che parlare con Di Maio, intransigente nel porre se stesso come condizione sine qua non del nuovo esecutivo, significhi infilarsi nel ginepraio dei rapporti interni ai 5 Stelle. Proprio nella giornata di ieri, infatti, è tornato a intervenire Alessandro Di Battista ( da sempre contrario all’accordo) che ha posto alcuni paletti sul programma, in parte raccolti anche dal ministro Toninelli.

Segno tangibile che le varie anime del Movimento siano più che in subbuglio. Per questo, si sarebbe aperto un nuovo canale di comunicazione diretto: quello tra Nicola Zingaretti e Giuseppe Conte, sempre più leader in pectore del Movimento ( o almeno della parte che fa ancora capo a Beppe Grillo). Proprio il dialogo tra loro avrebbe ridato spinta al dialogo, che è ripreso alle 18 alla Camera, con un summit delle due delegazioni, cui erano presenti solo i rispettivi capigruppo di Camera e Senato ( e per il Pd il coordinatore della segreteria, Andrea Martella).

Zingaretti, invece, è rimasto chiuso al Nazareno, in riunione con la sua segreteria. Il tempo, comunque, è agli sgoccioli. Il Colle ha convocato i due gruppi nel pomeriggio di oggi e si aspetta di avere risposte certe, oltre che nomi. Alla vigilia, nè Zingaretti nè Di Maio hanno rispettivamente pronunciato nè il nome del premier Conte, nè l’ipotesi di esecutivo giallorosso.

La pazienza del Pd, tuttavia, si sta riducendo al lumicino: a dare di nuovo fiato a tutte le sue perplessità sull’accordo è stato l’eurodeputato Carlo Calenda, che ha usato toni molto duri in una serie di tweet a raffica, in cui ha attaccato Di Maio ma anche l’eccessiva accondiscendenza del Pd ( «Calarsi le braghe non si può», ha scritto a un certo punto).

«È in atto una sceneggiata. Se volete fare una discussione programmatica parlate di Reddito di cittadinanza, Ilva, Quota 100 etc. Su Conte c’era un bel no. Che poi è diventato ni e ora è si», ha ragionato Calenda, che poi ha continuato: «Qualche negoziato in vita mia l’ho fatto. Questa è una rotta collettiva di una classe dirigente impaurita. Basta».

Per ora, tuttavia, le bocce non sono ancora ferme. Quella di ieri è stata una nuova nottata di passione, con gli uni in attesa dei vertici degli altri e un dialogo per reciproca ammissione molto complicato.