Mai più come nella primavera 2018. Mai più come in quegli 89 giorni. Questa è stata sin dall'inizio della crisi d'agosto la bussola del Colle e a quella decisione Mattarella si attiene rigorosamente. Ha chiesto e chiede chiarezza e tempi brevi. Ha stoppato sul nascere la tendenza molto in voga a dire una cosa nel suo studio e tutt'altra di fronte alle telecamere, chiarendo che la sua decisione si basa su quel che i partiti dicono nel suo studio ma anche fuori dal suo studio. Ha impedito all'inesauribile fantasia dei politici italiani si sbizzarirsi restringendo a due sole opzioni la rosa dei possibile esiti della crisi: o un governo M5S- Pd- Sinistra subito oppure lo scioglimento delle camere subito.

Anche sui tempi il presidente è drastico. Vuole il nome del presidente incaricato entro i primi giorni della prossima settimana, perché non si può ripetere la situazione paradossale della primavera 2018, quando il capo dello Stato non aveva nessun punto di riferimento, non sapeva neppure con chi parlare per seguire il corso della crisi. Ma fa anche sapere che al 99% il presidente incaricato sarà poi anche il capo del governo. Nessuna esplorazione stavolta. Non c'è tempo.

L'incaricato avrà pochi giorni per chiudere l'accordo sul programma e sui nomi dei ministri. Una settimana e non di più. Altrimenti l'eventuale fallimento della crisi porterebbe dritti all'esercizio provvisorio. E' evidente che l'ipotesi della nuova maggioranza convince sino a un certo punto Mattarella. Non perché abbia obiezioni politiche, che non rientrerebbero nel suo ruolo, ma perché vede sin troppo chiaramente il rischio che si tratti solo di una mossa dettata dal terrore che potrebbe portare a un governo fragilissimo e in ultima analisi più dannoso che utile. O il governo è vero e cementato non solo dall'antisalvinismo oppure meglio votare.

E' evidente lo scarto rispetto a Napolitano, per cui la stella polare era sempre e comunque evitare a tutti i costi lo scioglimento anticipato della legislatura. Dunque i due partiti dell'eventuale nuova maggioranza dovranno convincerlo della saldezzadei loro intenti e c'è un modo solo di farlo. Raggiungere in pochi giorni l'intesa sia sui programma che sui nomi.

Sui programmi, alla fine, ci si intende sempre. Almeno sulla carta. Almeno quando si tratta di partire. I problemi di merito emergono dopo e si rivelano spesso scogli insuperabili. Ma quanto si salpa non sono mai gli indirizzi politici a far rischiare il naufragio con la nave ancora all'ancora. Sono i nomi. E infatti è sul nome dell'eventuale premier dell'eventuale governo giallorosso che tutto rischia di saltare sul nascere.

Il nome di Giuseppe Conte prima di tutti, e a fianco quello di Gigi Di Maio. I 5S si sono affidati nel corso degli ultimi mesi sempre più al premier che peraltro giura con massimo candore di non essere pentastellato. Sacrificarlo dovrebbe pertanto essere facile. La realtà è opposta. Se si dovesse arrivare alle elezioni subito ma anche solo in tempi brevi Giuseppe Conte è la sola carta che i 5S possono giocare per evitare il disastro annunciato. E' popolare. Ha fatto ottima figura nel suo scomodo ruolo. Si è imposto assai più di chiunque altro come il vero “anti Salvini”.

Ma scaricarlo ora per poi magari doverlo implorare di tornare in servizio tra pochi mesi è una via quasi impraticabile, tanto più se il “premio di consolazione” per Conte dovesse essere il commissariato europeo. Solo che per evidenti motivi i 5S non possono neppure permettere che Di Maio sia umiliato con la cacciata dal governo. Di converso, Zingaretti non potrà parlare di discontinuità senza provocare ilarità generale se accetterà di sostenere un governo guidato da Conte e con Di Maio ministro.

Proprio l'eventuale riproposizione di Conte è diventata infine occasione per l'ennesima prova di forza tra Zingaretti, contrario al Conte bis, e Renzi, favorevole. Dopo essersi fatto imporre da Renzi l'avventura con i 5S, dopo essere apparso in tutta evidenza come il segretario dimidiato che è, difficilmente il segretario ( a metà) del Pd potrà accettare una nuova umiliazione.

Il presidente della Camera Fico, leader della sinistra 5S sembrerebbe una scelta quasi obbligata per un governo orientato a sinistra. Ma lo schiaffo per Di Maio sarebbe probabilmente eccessivo e le conseguenze potrebbero essere devastanti sul fronte, in realtà diviso e indeciso, dell'M5S. Un passo del genere può essere fatto solo se a deciderlo sono i veri capi del Movimento: Grillo e Casaleggio.

Senza Conte in pista e con Fico rallentato dall'handicap Di Maio, il nome del prossimo premier sarà con ogni probabilità quello di un tecnico. Sul Colle argomentano che, in fondo, un premier politico implicherebbe una componente tecnica più folta nell'esecutivo, che sarebbe di conseguenza particolarmente debole.

Un presidente del consiglio tecnico, invece, permetterebbe di mettere in campo una squadra fortemente politica, quindi meno fragile. Solo che c'è tecnico e tecnico e la rosa tanto per cambiare ha parecchi petali. I nomi che sino a un paio di giorni fa godevano di più vasta circolazione erano quelli dell'ex presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone e dell'eterno Carlo Cottarelli. Mettere le redini in mano a quest'ultimo, già indicato dal Colle come guida di un possibile governo tecnico nella primavera 2018, significherebbe dire apertamente che il capo del governo è Sergio Mattarella.

Cantone, a sua volte, implicherebbe l'insediamento a palazzo Chigi di un tecnico di area Pd, anzi di un “renziano”, sia pure autonomo, sui generis e spesso critico. Che i 5S, partito di maggioranza relativa, accettino di sacrificare Conte, di piallare il ruolo di Di Maio, come sarà comunque necessario, e di regalare al Pd palazzo Chigi non è facile.

Negli ultimi giorni sono emersi altri due nomi: quello di Giovanni Maria Flick e quello di Marta Cartabia. Il primo, oltre che ministro della Giustizia, è stato presidente della Corte costituzionale, la seconda ne è vicepresidente del 2014. La vicepresidente in carica ha qualche carta in più da giocare perché sul piano mediatico oltre che su quello sostanziale una donna a palazzo Chigi rappresenterebbe un fortissimo elemento di innovazione. Entrambi i nomi, però, sottolineerebbero la vocazione costituzionale del nuovo governo e rappresenterebbero pertanto un oggettivo elemento di profonda discontinuità. Sono però entrambi figure del tutto interne all'establishment e questo potrebbe costituire un freno per i 5S, che almeno nelle apparenze non vogliono e forse non possono rinunciare all'appeal “anti- establishment”.

L'ultimo tecnico in lizza è Enrico Giovannini. Economista, ministro del Lavoro nel governo Letta fondatore dell' Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Anche la sua nomina avrebbe un significato preciso: cementerebbe l'alleanza sul fronte sul quale lo scarto rispetto a Salvini è più marcato: quello del modello di sviluppo.