Non può certo sorprendere, dopo il monologo televisivo dell’ 8 agosto in una conferenza stampa a Palazzo Chigi preclusa alle domande, il contributo che il presidente uscente del Consiglio Giuseppe Conte, volente o nolente, con le sue critiche abrasive al suo vice e ministro dell’Interno Matteo Salvini, sedutogli accanto ai banchi del governo, ha dato alla vecchia politica del “tutti tranne” il mostro, l’orco, il pericolo pubblico di turno. Che oggi è, appunto, il leader leghista, cresciuto forse troppo nelle elezioni europee del 26 maggio e nei sondaggi successivi per non aggiungere nuove paure alle vecchie, specie dopo essersi lasciato prendere la mano, o il costume da bagno, con richieste di “pieni poteri” e tentazioni, se non propositi, di correre al rinnovo anticipato delle Camere per cercare di fare tutto da solo.

E’ una prospettiva, quest’ultima, alla quale si è attaccato uno che di queste tentazioni s’intende come Matteo Renzi riaccendendo il fuoco che già covava nelle retrobotteghe della politica per rianimare quell’attrazione fra grillini e Pd stroncata proprio da lui l’anno scorso con una intervista televisiva. Che bastò e avanzò per vanificare una riunione della direzione del partito, al Nazareno, convocata proprio in quel senso di marcia dopo la esplorazione della crisi affidata dal capo dello Stato al presidente pentastellato della Camera Roberto Fico.

Non può sorprendere, dicevo, che un Conte persino “offeso” sul piano personale e istituzionale sia caduto nella tentazione della ritorsione dopo tanti sgarbi e persino sfide lanciategli da un suo pur vice, spintosi ad improvvisare al Viminale, da parecchio tempo sede non più del governo ma solo del Ministero dell’Interno, un tavolo parallelo a quello di Palazzo Chigi per consultazioni, trattative e quant’altro con le cosiddette parti sociali su manovra fiscale, legge di stabilità, bilancio e annessi e connessi. Può e forse deve sorprendere invece come nell’Italia che Niccolò Machiavelli cercò inutilmente di smaliziare col suo Principe sia così frequente scambiare lucciole per lanterne e avvertire così tanto tiranni più o meno in erba contro cui mobilitarsi non scorgendo magari quello vero al momento giusto, come accadde con Benito Mussolini nel 1922, scambiato poi persino da un Papa come l’” uomo della Provvidenza”.

Il “tutti contro Renzi”, per andare a ritroso nella cronaca o storia politica della Repubblica, non fu certamente e francamente un affare per il Paese, al netto degli errori e delle esagerazioni dell’ex presidente toscano del Consiglio, quando si tradusse nella bocciatura referendaria di una riforma costituzionale forse preferibile, per organicità e contenuto, alla modesta e demagogica riduzione del numero dei parlamentari messa in cantiere dalla maggioranza gialloverde, vantata ora dai grillini come risolutiva e che Salvini, pur dopo avere innescato la crisi, si è offerto di salvare dai suoi effetti, come se fosse davvero la panacea vantata dai pentastellati. Mah, sbaglierò ma avrei preferito la conferma referendaria della riforma di Renzi nel 2016, con i miglioramenti ulteriori che avrebbero potuto seguire vedendone l’applicazione.

Il “tutti contro Berlusconi” praticato dalla sinistra durante tutta la cosiddetta seconda Repubblica, contraddetto curiosamente proprio da Renzi associandolo al progetto della riforma costituzionale sino alla rottura sulla successione a Giorgio Napolitano al vertice dello Stato, non si è tradotto, direi, né nella distruzione del Cavaliere - che riassapora proprio in questa crisi di governo una vitalità politica che sembrava compromessa dal sorpasso leghista nelle elezioni politiche dell’anno scorso- né in una vittoria dei suoi avversari. Che hanno poi trovato sulla strada nuovi, e forse per il Pd, ancora più pericolosi nemici o concorrenti con cui fare i conti, come i leghisti di conio salviniano e i grilllini.

Il “tutti contro Craxi” della parte conclusiva della cosiddetta prima Repubblica, praticato dalla sinistra montando sui cingolati giudiziari di Tangentopoli, si risolse miseramente - ricordate?- nella la sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” allestita e condotta nel 1994 da Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci e primo del Pds, per portare i post- comunisti alla guida del governo. Ci fu invece la sorprendente e beffarda vittoria del Cavaliere esordiente della politica, che la magistratura, o una certa parte di essa, la più attiva, politicizzata e visibile, trattò ancor prima e più della sinistra come l’erede dell’odiato leader socialista costretto all’espatrio.

Il “tutti contro Cossiga”, che si affiancò tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta al “tutti contro Craxi”, spingendo i comunisti a tentarne l’impeachment davanti alla Corte Costituzionale e il collega di partito Ciriaco De Mita, che l’aveva mandato al Quirinale nel 1985, a liquidarlo come un problema sanitario, finì come in una comica nel 1998. Fu l’anno in cui l’ormai presidente emerito della Repubblica, fermo quasi come un paracarro al suo stile e ai suoi umori, e sempre desideroso di rimanere nella mischia, fu scoperto come uomo lungimirante da Massimo D’Alema. Che subentrò a Romano Prodi a Palazzo Chigi con l’appoggio determinante dei transfughi del centrodestra arruolati apposta da Cossiga in un’armata di “straccioni” emuli dei francesi che avevano sconfitto a sorpresa i prussiani nel 1792.

Il “tutti contro Fanfani” praticato dai comunisti quando, a dispetto delle sue origini dossettiane nella Dc, lo scambiarono per una specie di De Gaulle italiano in miniatura fisica, impedì nel 1971 a quel leader democristiano di salire al Quirinale per succedere a Giuseppe Saragat. Ma non spianò per questo la strada al candidato dello scudo crociato che avrebbe preferito il Pci: Aldo Moro. L’allora ministro degli esteri e già segretario del partito e presidente del Consiglio fu bloccato nella Dc da un “tutti fuorché Moro” praticato dai “dorotei” democristiani e dai loro alleati esterni, che erano in quel momento i repubblicani, i socialdemocratici e i repubblicani.

Essi improvvisarono sotto l’albero di Natale l’elezione di Giovanni Leone. Che poi avrebbe perso il Quirinale, sei mesi prima della scadenza del mandato, non tanto per una campagna scandalistica avviata contro di lui addirittura dai radicali di Marco Pannella quanto per non essersi piegato alla cosiddetta linea della fermezza durante il sequestro di Moro. Egli aveva cercato di salvarlo predisponendo la grazia ad una detenuta - Paolo Besuschio- contenuta nell’elenco dei “prigionieri” con i quali i brigatisti rossi avevano chiesto di scambiare il presidente della Dc sequestrato fra il sangue della scorta il 16 marzo 1978.