Domenica, il quotidiano la Repubblica apriva il giornale con un titolo a quattro colonne, quindi con grande evidenza, che diceva: “I baby mostri dello spray”. Il riferimento era agli arresti di sette ragazzi accusati di essere coloro che, per commettere dei furti, avevano usato lo spray al peperoncino che causò la calca alla discoteca di Corinaldo.

L’esito fu tragico: sei morti, 120 venti feriti. Una discoteca che invece di essere luogo di divertimento si trasformò in una gabbia, per alcuni una trappola mortale. I fatti risalgono all’ 8 dicembre dello scorso anno, quando nella discoteca Lanterna azzurra era previsto il concerto del trapper Sfera Ebbasta.

In questi mesi la procura di Ancona ha indagato ed è giunta a puntare il dito contro una banda di giovanissimi, tutti in un’età compresa tra i 18 e i 22 anni. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere all’omicidio preterintenzionale. L’inchiesta, ricordiamolo, vede a vario titolo altri indagati tra i proprietari del locale, gli organizzatori del concerto e i rappresentanti comunali che avevano concesso le licenze.

La definizione “baby mostri” non fa onore a un giornale come Repubblica. Per tante, troppe ragioni. In primo luogo, vale la pena ripeterlo fino alla nausea almeno come testimonianza, perché stiamo parlando di accuse che devono essere confermate da tre gradi di giudizio. Se i ragazzi coinvolti dovessero essere assolti, quel “mostro” resterà sulla loro pelle, e sul loro futuro, come una condanna indelebile contro cui poco potranno fare. Mostro è una definizione che non lascia spazio al garantismo e alla presunzione di innocenza.

Repubblica, non altri giornali più “forcaioli”, ha deciso, ancora prima del processo, la loro colpevolezza.

Ma, per quanto importante, non basta soffermarsi sulla presunzione di innocenza. No, non basta. L’idea di “mostro” racchiude significati che vanno al di là: una idea dell’umano che non lascia speranza, non prevede la possibilità per chi sbaglia di cambiare. Non si cerca di definire l’errore come un comportamento da condannare, come una scelta scellerata, ma come una identità che si fissa nella mostruosità, cioè in una deviazione dell’umano.

È come se decenni di conquiste sociali andassero in fumo in un solo colpo e forse per vendere qualche copia in più. Mostro vuol dire che quei ragazzi non sono più persone, ma scarti, che per loro - una volta appurate le eventuali responsabilità - non vale quanto dice l’articolo 27 della Costituzione, per loro la rieducazione non è contemplata. La loro “natura” è definita una volta per sempre, confinata in una accezione negativa e assoluta.

Sempre più spesso quando si usa la parola mostro si tende a mettere in atto un meccanismo di difesa. La società, attraverso i mezzi di comunicazione di massa che ne costruiscono la rappresentazione, prende le distanze dal potenziale colpevole o dal colpevole accertato. È come se dicessimo che le mele marce non fanno parte del consesso civile e si crea una contrapposizione netta tra il bene, che siamo noi, e il male che sta sempre e solo fuori di noi.

Gli italiani e i migranti, i buoni e i cattivi, gli umani e i mostri. Sono alcune delle dicotomie che attraversano il dibattito pubblico e l’immaginario collettivo. È però questa una società chiusa in se stessa, che non ha la forza di fare autocritica. Le responsabilità penali sono individuali, ma non possiamo non interrogarci anche sulle nostre responsabilità, su che cosa siamo diventati, su quali valori trasmettiamo alle giovani generazioni, su quale idea di futuro stiamo offrendo loro.

Soprattutto una cosa non possiamo permetterci: smettere di pensare che chi sbaglia possa e debba avere una seconda chance. Se dovesse prevalere l’idea del mostro, i primi ad essere sconfitti saremmo noi.