DALLA FRONTIERA TRA CONGO E RUANDA

Ajar è arrivato da Butembo al Centro di trattamento Ebola di Goma il 15 luglio, debilitato e semi cosciente. Era il primo paziente colpito dall’epidemia nell’area circostante la metropoli della Repubblica Democratica del Congo, che conta oltre 2 milioni di abitanti, vicina alla frontiera col Rwanda.

Dopo la conferma delle analisi di laboratorio effettuate dal Ministero della Salute della positività al virus, l’ammalato è stato isolato e ha ricevuto l’assistenza medica necessaria.

Il ricovero di Ajar ha rappresentato una novità preoccupante: la prova che l’infezione si stesse diffondendo rischiando di travalicare i confini congolesi. A distanza di poco più di due settimane i pazienti registrati a Goma sono saliti a cinque, di cui due deceduti, elevando così il livello di allarme. La decisione del Ruanda di chiudere il confine, senza consultare Kinshasa, non ha dunque sorpreso nessuno.

Già qualche settimana prima l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dichiarato l’epidemia nel Nord Kivu, che ha causato oltre 1.600 morti, un’emergenza internazionale di salute pubblica. Il Kivu, teatro di un conflitto armato che imperversa ormai da 15 anni, e Ituri le regioni più colpite. A un anno di distanza, con i primi casi in un grande centro urbano, di fatto si ammette che il contenimento di Ebola non è efficace. Quella in atto nel Paese africano è la seconda peggiore nella storia della malattia, dopo la pandemia che dal 2013 al 2016 ha colpito Guinea, Liberia e Sierra Leone.

Da mesi l’organizzazione non governativa “Medici senza Fontiere”, impegnata sul campo in supporto a vari ospedali locali e con propri centri sanitari, chiede che la risposta all’Ebola registri una svolta decisa. Un cambio di passo che secondo gli operatori internazionali non può avvenire senza la collaborazione dei pazienti e delle loro famiglie, che devono essere coinvolti direttamente nella gestione dell’infezione.

La sensibilizzazione sulle misure per controllare la diffusione del virus, la sfida fondamentale. Il punto cruciale, le campagne di vaccinazione che devono raggiungere più persone possibili.

Ma sono necessari maggiori quantitativi di vaccini, medicinali e strumenti per affrontare anche gli altri gravi bisogni sanitari delle comunità. «Il coinvolgimento della popolazione è diventata una delle principali responsabilità delle équipe sul terreno - racconta Claudia Lodesani, infettivologa e presidente di Msf Italia - Ma raggiungere le comunità è diventato ancora più difficile con i disordini scoppiati dopo il posticipo delle elezioni a Beni e Butembo. Le persone sono ancora più riluttanti ad accettare misure di prevenzione dell’infezione, come le sepolture sicure o la decontaminazione di case e centri sanitari».

«Il rischio ora, dopo i casi in una grande città - prosegue Lodesani - è una propagazione più veloce e un maggior numero di persone esposte alla possibile contaminazione perché in un contesto urbano la densità di popolazione e le occasioni di contatto sono maggiori, come era accaduto a Monrovia in Liberia nel 2014, quando l’epidemia è esplosa proprio quando è arrivata in un grande centro urbano».

L’epidemia, come spiega la presidente di Msf, rischia di peggiorare perché è in atto in un’area di conflitto, elemento che rende difficoltoso l’accesso alla popolazione. Visto il contesto, per gli operatori che lavorano sul campo è difficile muoversi e individuare i casi sospetti. «L’infezione si è estesa anche in un’altra zona di confine, dove c’è molto movimento di popolazione con gli stati confinanti, Sud Sudan e Uganda, dove ci sono già stati dei casi. I paesi limitrofi devono adottare misure di prevenzione e rafforzare i sistemi sanitari. Per contenere l'infezione è importante fare un punto della situazione sulle cose che funzionano e quelle non stanno funzionando e implementare le strategie di intervento attraverso il coinvolgimento delle comunità» la conclusione di Lodesani.

Da quando è stata dichiarata l’epidemia il 1° agosto dello scorso anno, le ong sul campo hanno costantemente aumentato le proprie attività mediche per rispondere al numero crescente di casi confermati.

Nelle ultime settimane, in particolare, Msf ha concentrato la propria azione nei distretti sanitari di Butembo, Katwa e Komanda, con l’ampiamento del Centro di trattamento Ebola a Butembo da 64 a 96 posti letto, l’apertura di una nuova unità a Katwa a est di Butembo, che arriverà a 70 posti letto, e una di transito a Komanda, nella provincia di Ituri, dove sono stati identificati nuovi focolai. «Per vincere l’Ebola, i Centri di trattamento non bastano. I pazienti devono essere al centro della risposta, devono essere partecipanti attivi. Connettersi con le comunità e costruire fiducia reciproca è un’azione cruciale per controllare l’epidemia» dice Roberto Wright, antropologo a Katwa. «Dobbiamo aumentare i nostri sforzi per coinvolgere la popolazione e renderla parte attiva nella lotta contro il virus. Per questo ascoltiamo anche i loro bisogni più ampi. Alla fine di dicembre, abbiamo distribuito kit traumatologici ai centri sanitari locali per aiutarli a gestire eventuali focolai di violenza. Allo stesso modo, i nostri Centri di transito non servono solo a identificare i casi di Ebola, ma anche a garantire cure adeguate per altre patologie.

Visitare le comunità per presentare le nostre attività prima di avviarle offre importanti risultati in termini di comprensione reciproca e facilita una migliore collaborazione nel lungo termine» è la convinzione di Wright. Nonostante l’impegno dei volontari delle organizzazioni internazionali, gli episodi di Goma dimostrano che l’epidemia è in rapida evoluzione. E ciò non ha sorpreso i medici che da mesi combattono con il virus. Era questione di tempo. Le attività di preparazione per un’emergenza Ebola a Goma erano partite a fine 2018, rafforzando il sistema di sorveglianza epidemiologica e garantendo un’adeguata capacità per gestire i casi sospetti.

I segnali erano chiari: le persone continuavano a morire nelle comunità, il numero degli operatori sanitari contagiati cresceva e la trasmissione della malattia era quasi inevitabile. Il Ministero della Salute e l'OMS monitorano con serietà la situazione ma è necessario un cambio di marcia. Rispondere a questa epidemia in modo efficace deve essere una priorità se si vuole scongiurare una pandemia internazionale.

Per gli operatori sanitari è necessario fare un bilancio su ciò che sta funzionando e ciò che non è utile. In un contesto in cui la ricerca e l’identificazione dei contatti non è facile, non tutte le persone colpite vengono raggiunte. Per ridurre la propagazione della malattia sarebbe necessario un approccio su larga scala, un migliore accesso alla vaccinazione per tutta la popolazione. Purtroppo l’instabilità nella Repubblica democratica del Congo rende difficile qualsiasi operazione.

Nei mesi scorsi, a causa di violenti attacchi contro le proprie strutture, MSF era stata costretta a sospendere le attività nei Centri di trattamento a Butembo e Katwa, determinando un peggioramento della situazione. Nel frattempo la crescente insicurezza dovuta alle elezioni presidenziali ha ulteriormente ristretto l’accesso alle cure mediche nell’area di Beni, dove diversi centri sanitari sono stati danneggiati durante le proteste delle scorse settimane.

Tutto questo ha reso la tempestiva identificazione di nuovi casi ancora più complessa. Nel giro di pochi giorni i centri sanitari hanno raggiunto livelli di sovraffollamento. «In questa situazione le persone sono spesso costrette a cercare cure in ospedali che non possono garantire un adeguato triage, né misure di prevenzione e controllo dell’infezione, e questo aumenta il rischio di contagio» dichiara Laurence Sailly, coordinatrice dell’emergenza a Beni. «Stiamo parlando di una popolazione già provata da molti anni di guerra, che ora deve affrontare la più mortale epidemia di Ebola nella storia del paese. I disordini di queste settimane peggiorano la situazione, limitando la possibilità di trovare cure mediche adeguate». conclude Sailly.

L’emergenza non riguarda solo la Repubblica democratica del Congo e il Rwanda. Un ceppo dell'infezione si è sviluppato anche nel distretto di Kasese, in Uganda, dove dallo scorso 11 giugno sono stati accertati tre. Una squadra di MSF sta sostenendo le autorità sanitarie ugandesi nella gestione delle persone che sono entrate in contatto con i pazienti affetti dal virus o che mostrano sintomi riconducibili all’Ebola.

Per loro è necessario un attento monitoraggio volto a confermare o meno l’infezione. Gli operatori internazionali sono attrezzati per intervenire nella gestione di nuovi casi con un'unità di trattamento di 8 posti letto nell'ospedale di Bwera, che la stessa ong aveva contribuito ad allestire nell'agosto 2018. Nel Paese sono state avviate anche attività di formazione del personale del Ministero della salute locale per l’assistenza ai pazienti affetti da febbri emorragiche, anche durante la risposta a un'epidemia a Marburg, e per migliorare le misure di igiene e di controllo delle infezioni negli ospedali di Kagando e Bwera, dove sono stati ricoverati per la prima volta casi confermati di Ebola.

La crisi sanitaria è dunque in rapido aggravamento e la risposta, come denunciano i medici che quotidianamente rischiano sul campo, inadeguata. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità dichiara di avere a disposizione solo la metà dei soldi necessari per affrontare l’epidemia mentre l’instabilità nel Nord Kivu, fulcro centrale di diffusione del virus, non aiuta a mantenerne circoscritto il raggio d’azione.

Sono più di un milione gli sfollati a causa delle violenze, molti dei quali nei confinanti Uganda e Rwanda. Vengono effettuati controlli mirati al passaggio della frontiera, ma secondo la stessa Oms il rischio che l’epidemia possa espandersi oltre i confini africani è reale. La gravità di quanto stia accadendo contrasta con l’indifferenza in cui sta maturando. I grandi Paesi donatori pronti a finanziare campagne dopo catastrofi naturali o crisi umanitarie in paesi ” amici”, non appaiono altrettanto reattivi a fronte di un allarme che non dovrebbe essere sottovalutato. Da nessuno.