Nel 2016, nei mesi in cui il governo turco poneva in stato d’assedio intere cittadine curde o interi quartieri di grandi città bombardandoli senza tregua e commettendo altri feroci soprusi nei confronti degli inermi cittadini del Kurdistan turco, 1100 accademici, professori e ricercatori, delle università di tutta la Turchia firmarono un appello affinché il governo cessasse queste pratiche sciagurate. L’appello, pur accorato, usava termini molto equilibrati, tanto che in capo a qualche tempo altri 1100 accademici si unirono ai primi. Alcuni erano professori in università straniere e risiedevano all’estero, ma sentirono il dovere di intervenire. In totale, dunque, più di 2.200 che in questi anni sono stati conosciuti come Accademici per la Pace.

La procura di Istanbul ( nella persona di un notissimo procuratore, poi finito indagato e rimosso per corruzione) iniziò una crociata contro questi accademici: alcuni ( non molti, per fortuna) finirono in carcere, e tutti iniziarono ad essere perseguiti per propaganda sovversiva. Piano piano ci sono stati i rinvii a giudizio e poi i processi. Ad oggi sono andati a processo in 779; le condanne sono state finora 203, di cui 36 definitive; 1973 le udienze che si sono tenute e 240 le giornate di udienza di fronte a 18 corti penali. Molto si era discusso di chi fosse la competenza territoriale a conoscere dei casi: unificata su Istanbul oppure nei luoghi ( le università) in cui avevano firmato? E gli stranieri? Nonostante l’intervento della Corte Suprema a favore della competenza diffusa, di fatto tutti i processi si stanno svolgendo a Istanbul ( eccetto per i professori all’estero, per i quali c’è Ankara) e fioccano le condanne che di solito si attestano su 15 o 18 mesi, ma talora arrivano anche a tre anni. Una sola la assoluzione.

Proprio recentemente sono finiti in carcere Fusun Ustel da più di 60 giorni perché non gli hanno dato la sospensione della condanna nel mentre che non le hanno ammesso l’appello e Tuna Altinel, professore turco che insegna all’università di Lione ed aveva partecipato ad un dibattito sulla situazione in Turchia e poi era rientrato per rivedere i familiari: arrestato, è dentro da più di due mesi.

Intanto, in 10 casi vi è stata rimessione alla Corte Costituzionale per essere l’imputazione violativa del diritto alla libera espressione, costituzionalmente garantito. In una prima udienza i dieci casi sono stati riuniti ed il caso è stato sottoposto alla Assemblea Plenaria della Corte, composta da 16 membri. Venerdì scorso, alle 5 del pomeriggio, la Corte si è espressa e ha deciso che le imputazioni mosse violano il diritto di espressione. I giudici del massimo collegio si sono espressi 8 a 8: ma in tal caso prevale lo schieramento in cui si è collocato il Presidente, che è stato favorevole alla dichiarazione di incostituzionalità.

La decisione si applica de plano in tutti i giudizi pendenti in ogni grado, i detenuti debbono essere rimessi in libertà e probabilmente i processi futuri non vedranno nemmeno la luce ( a meno che non cambi l’imputazione, ma appare difficile). Non si sa invece che fine faranno le 36 condanne definitive intervenute nel frattempo. Magari potranno trovare una soluzione di giustizia in sede di esecuzione.

Non sarebbe giusto attribuire a questa pur importante decisione il significato di un cambio di rotta nella politica giudiziaria ( o nella politica in generale) dovuta alla vittoria dell’opposizione nelle recenti elezioni di Istanbul, ma certo, soprattutto se letta assieme ad altri segnali che provengono proprio dal mondo giudiziario, è lecito pensare che qualcosa si stia muovendo in Turchia. Il Sultano scricchiola.

* Osservatore Internazionale per l’UCPI