A Napoli c’erano pochissime autorità. Solo persone, tante, tanti napoletani, ma nessuna istituzione a parte quelle indispensabili: Comune e Regione. Luciano De Crescenzo è stato acclamato, il nome scandito dalla folla all’uscita dalla chiesa di Santa Chiara, ma certo non c’erano né solennità istituzionale né presenzialismo glamour. Anzi. Prima durante e dopo l’ultimo saluto a Luciano c’è stato veleno. Dietro l’indifferenza per De Crescenzo c’è l’élite che non sa parlare al “popolo”

ANapoli c’erano pochissime autorità. Solo persone, tante, tanti napoletani, ma nessuna istituzione a parte quelle indispensabili: Comune e Regione. Luciano De Crescenzo è stato acclamato come un leader di partito, il nome scandito dalla folla all’uscita dalla chiesa di Santa Chiara, ma certo non c’erano né solennità istituzionale né presenzialismo glamour. Anzi. Prima durante e dopo l’ultimo saluto a Luciano c’è stato veleno. Molto. Nei titoli, nelle scelte d’impaginazione, nello scarto tra lui e Camilleri. Fino al culmine: Aldo Grasso. Il suo “Padiglione Italia” di domenica era acido: De Crescenzo, scrive Grasso, «citando Biante di Priene ( il pensiero greco classico riveduto e corretto dalla verve partenopea), faceva sua la massima secondo cui “la maggioranza degli uomini è stupida”». E certo, ha aggiunto il critico televisivo, se ne ha il riflesso più diretto «con l’audience» e con la tesi, pure cara a De Crescenzo, secondo cui «la tv, proprio per andare incontro al gusto delle masse abbassa il proprio gusto fino a farlo coincidere con quello della maggioranza». «Tesi dibattuta», annota Grasso con perfidia, «potrebbe essere applicata a tutte le scritture di massa». Scoperta allusione — di una cattiveria da strega delle fiabe — all’enorme successo dei libri di De Crescenzo.

Mai visto nulla di simile a meno di ventiquattr’ore da un funerale. Manco si fosse trattato di un sanguinario dittatore, del più spregevole nemico della democrazia.

C’è da chiedersi perché. Perché la critica, gli intellettuali, odiassero, e odino ancora, così tanto Luciano De Crescenzo. In parte si è risposto. Persino al funerale a Santa Chiara, il suo fraterno amico Renzo Arbore ha trovato una spiegazione nell’invidia: «Non ti hanno perdonato di aver venduto tanto». Forse però c’è altro. C’è il senso di una battuta scappata a Luciano e rovesciato da altri odiatori sui social: «Napoli sommersa dalla spazzatura? È un sintomo di ricchezza». Qualche fesso ne ha approfittato per sbavare il solito odio contro la Napoli ritenuta refrattaria all’igiene e meritevole di essere purificata dal fuoco del Vesuvio. Quando lo cantano allo stadio, i napoletani ballano, tanto che non prendono sul serio quell’odio da miserabili. Il punto è nel senso vero della battuta: in quei giorni orribili delle montagne di rifiuti cosparse di creolina per attutire la catastrofe sanitaria, De Crescenzo provò a offrire un po’ di tenerezza. Era un modo per accarezzare la smorfia di vergogna di noi partenopei, per consolarci con l’iperbole di una fantastica opulenza. Cosa c’è, in un simile bisogno di tenerezza, se non la ricerca del bene altrui? De Crescenzo ha praticato in ogni suo istante la rimozione della miseria per risvegliare in ciascuno, ma innanzitutto nella sua Napoli, la coscienza del meglio che si ha. Ha capito che la “plebe” non va disprezzata ma incoraggiata. La sua divulgazione è desiderio di condividere il sapere con tutti. Desiderio sincero. Animato dalla fede nella capacità, riconosciuta a ciascuno, di amare la conoscenza.

Una fede che Aldo Grasso non sembra coltivare. E che forse neppure coltivano tanti di quelli che odiano, disprezzano o snobbano De Crescenzo. La distanza fra lui e loro è tutta nelle due opposte idee di popolo. L’odio per De Crescenzo è una rimozione di quella diffidenza. È il rifiuto della distanza dal popolo, mascherata con lo spregio per il presunto cialtrone.

Dietro lo snobismo di chi liquida De Crescenzo c’è tutto il disastro delle élite dissociate dalle persone in carne e ossa, della frattura con il popolo. È la stessa incapacità di comunicazione. Lo stesso presuntuoso distacco. E persino l’ultimo appiglio dell’aristocrazia intellettuale, secondo cui De Crescenzo falsifica perché riproduce una Napoli in cui si è ben guardato dal continuare a vivere, anche quest’ultima smorfia accigliata casca male. Perché se c’è una luce che si può offrire a Napoli per rischiararne il futuro è proprio la fiducia nel bene nascosto sotto la coltre del fatalismo. Napoli è l’ultima speranza che l’umanità ha per sopravvivere, disse Bellavista. Ma la coscienza del bene oscurato dalla sfiducia è l’ultima speranza che Napoli ha per sopravvivere a se stessa. Liberarsi dal buio dell’irrimediabile è la sola possibilità di riscatto. Napoli ne ha bisogno. E s’è c’è un intellettuale che si è sforzato di accenderle la speranza, è il nostro, amatissimo, per sempre, Luciano.