FRANCESCO PETRELLI*

Al Palazzo Pubblico di Siena si può ammirare un famoso affresco del ’ 300 dedicato agli “Effetti del buongoverno”. Oltre alle solite immagini allegoriche della Sapienza, della Concordia e della Giustizia, in alto, collocata proprio al di sopra del punto in cui le mura medievali della città separano simbolicamente i boschi e la campagna dall’ordine urbano delle case, c’è l’immagine di una donna nuda, alata e seducente: è l’allegoria della Sicurezza. La donna reca in una mano un cartiglio che promette la salvezza della collettività che non la rinneghi ma, nell’altra, l’immagine cruda di una forca con un uomo impiccato. Giustizia, sicurezza e penalità risultano dunque, in quel sistema medievale, strettamente connessi e legati a loro volta, in maniera tanto semplice quanto brutale, ad una immagine seducente.

Era il tempo in cui si andava affermando il sistema inquisitorio, prendendo il posto del processo accusatorio, per rispondere alle esigenze del nuovo ordine comunale, quando la pressione criminale prodotta dalla rivoluzione dell’inurbamento veniva risolta con gli editti cittadini dei potestà di turno in chiave puramente repressiva. L’immagine della “Securitas” collocata lì in alto, nuda e cruda, con in mano il simbolo della penalità capitale stava dunque a ricordare la validità di una equazione “più pena più sicurezza” che nella complessità di una società moderna, ove le mura comunali sono state dissolte dal progresso tecnologico, non ha più alcuna legittimazione.

Tornare alla primitive equazioni di secoli nei quali l’organizzazione sociale non aveva nulla di simile alla nostra significa fare un’operazione regressiva tanto inutile quanto pericolosa. La complessità del moderno mondo globalizzato non può trovare risposte nella seduzione securitaria propria di un mondo trapassato, la cui favola protettiva poteva risultare funzionale per i cittadini di una comunità di poco più di 50.000 anime ( tante ne contava Siena in quegli anni). La questione sappiamo come si sia sviluppata nei secoli successivi, nei quali l’ordine promesso dalla sicurezza si è trasformato nella tutela dell’ordine sociale costituito, nel successivo tramonto delle libertà comunali, e nei quali la penalità è divenuta diffuso arbitrio e inumana e brutale esposizione dei supplizi, mentre il diritto criminale si è trasformato, come ricordava Beccaria nella prefazione della sua opera, in quell’insano intreccio di “opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi”.

Ora che anche capi di Stato autoritari e sovranisti, dopo autorevoli giuristi nostrani, intonano il seducente motivo del tramonto dei miti del liberalismo e dell’illuminismo, dobbiamo riflettere sul fatto che l’indebolimento di quel fronte di princìpi e di tutele non abbia fatto altro che propiziare il ritorno agli ideali di quella barbarie. Una narrazione incolta, ma facile da svilupparsi nel linguaggio essoterico dei social media, costruisce l’immagine di una collettività insicura e incerta assetata di una nuova penalità, mutuando schemi paralogici tratti da una saga medievale da borgo assediato. La figura simbolica dell’impiccato torna così a dominare l’immaginario collettivo della “nuova” risposta criminale delle città contemporanee senza più mura.

È da tempo che gli aspetti più ingenui e la base ideologica delle filosofie illuministe sono state svelate. Quel che ne resta è un nocciolo duro e insostituibile di princìpi, il risultato finale di una prova di resistenza che dura da un paio di secoli, e che rende insostituibile quel sistema di tutele e di garanzie volte a impedire che ogni cittadino e ogni essere umano venga trattato come un mezzo e non invece posto quale fine ultimo di ogni ordinamento che voglia dirsi civile. Si potrebbe dire, dunque, del “diritto penale liberale”, quel che Churcill diceva della democrazia parlamentare: essere il peggiore dei sistemi, ad eccezione di tutti gli altri. Se il tema della tutela delle libertà del singolo contro il potere dello Stato, che si racchiude in quella formula, può sembrare a qualcuno troppo vago, vale la pena di riflettere su questo aspetto e sui pericoli che un recupero di un diritto penale pre- liberale sta a significare. Non è quindi in gioco la questione assai banale del “chi sbaglia paga”, ma quella più interessante e complessa della moneta con la quale il prezzo della giustizia debba essere pagato, se con la moneta inflazionata, e dunque inutile, dei secoli passati ovvero con una moneta che invece sia utile all’intera collettività. Perché se ogni ideale filosofico e politico può essere sviluppato, modernizzato e può dunque trovare una sua applicazione innovativa e progressiva, quel che è certo che la critica attuale al pensiero penalistico liberale mira invece tout court a un ritorno al pensiero criminale del passato. E non è difficile svelare i prototipi assai risalenti di questa penalità primitiva ai cui fondamenti si è tornati a guardare.

Il problema non è dunque quello di svelare le mitologie dei princìpi liberali sui quali le democrazie occidentali si fondano e dai quali traggono la loro stessa legittimazione, ma di svelare la natura antistorica degli ideali ai quali si ispirano le moderne utopie autoritarie e sovraniste, che su quei miti securitari medievali fondano la propria risibile mitologia.

* avvocato