L'Italia rischia. A pagare saranno gli impoveriti. Questa la conclusione cui giunge Philiph Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà.

Ci sarà un’apartheid climatico: è il modello sociale al quale siamo destinati nell’ipotesi non vi sia un’inversione di tendenza.

I ricchi hanno i mezzi per sfuggire alla fame “mentre il resto del mondo è lasciato a soffrire”, profetizza Alston nel rapporto presentato al Consiglio dei diritti umani dell’Onu.

La sua analisi lucida non risparmia le azioni della comunità internazionale che definisce “palesemente inadeguate”.

Per Alston i poveri del mondo rischiano di essere colpiti più duramente dall’aumento delle temperature e dalla potenziale penuria di cibo e dai conflitti, che potrebbero accompagnare questo cambiamento. S

i prevede che le nazioni in via di sviluppo soffriranno almeno il 75% dei costi dei cambiamenti climatici, nonostante la metà più povera della popolazione mondiale generi solo il 10% delle emissioni di Co2.

«Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà». Alston ha avvertito che il climate change «potrebbe condurre oltre 120 milioni di persone in più in povertà entro il 2030.

Ancora oggi - ha aggiunto - troppi Paesi stanno facendo passi miopi nella direzione sbagliata» . Bisogna intervenire con azioni concrete, politiche di adattamento, a sostegno delle popolazioni in difficoltà indotta o naturale.

L’acqua come ricatto geopolitico

Lo scorso anno il World Water Assessment Program delle Nazioni Unite nel proprio rapporto chiedeva ai governi e alle aziende di agire a salvaguardia dell’acqua e dell’intero ecosistema investendo in tecnologie compatibili con la natura.

Il dato è allarmante, poiché sul pianeta il 99% delle risorse economiche del settore idriche è impegnato sulle cosiddette tecnologie grigie, quelle ad alto impatto ambientale realizzate col cemento, producono grandi profitti per le corporation e in finanza, spesso a detrimento delle comunità.

La realizzazione delle grandi dighe è finalizzata sempre più frequentemente al controllo dei territori e al condizionamento geopolitico delle relazioni internazionali. In sostanza uno strumento bellico mascherato.

Questo spiega anche la tendenza di molti Paesi ad acquisire la gestione dei servizi idrici all’estero attraverso le Corporation che controllano.

Alcune comunità africane stano reagendo: in Senegal v’è un contenzioso con la Suez ( controllata dallo Stato francese), cosicché l’appalto è stato sospeso e la gestione è rimasta nelle mani dell’azienda nazionale. Il Gabòn si è liberato della Veolia ( controllata dalla Cassa depositi e prestiti francese).

Sono le stesse multinazionali che in Francia sono state lasciate fuori alla porta della Capitale quando l’amministrazione parigina ha posto limiti al potere economico delle lobby, che ne esautorava la funzione politica.

Su scala globale, i grandi attori nei processi di occupazione dell’acqua sono pochi e le strategie per accaparrarsi gli appalti dei servizi pubblici sono rodate: promettono grandi investimenti e soluzioni, per evitare la conflittualità con i territori, e il rapporto stretto con la politica incoraggia una legislazione di favore.

Gli impegni delle Corporation sono sempre disattesi. Il Rapporto Wwap/ Onu del 2019, infatti, lancia un nuovo allarme: la popolazione che non ha regolare accesso ad acqua potabile e per le necessità d’igiene supera i 2 miliardi.

Dal canto loro le scelte dei governi tendono a sacrificare le minoranze e le periferie allargando la fascia degli indigenti a vantaggio delle classi più agiate e degli speculatori.

Operazioni meno percepite, ma più devastanti, consistono nell’acquisizione delle fonti d’acqua: è il cosiddetto water grabbing. Vi rientra l’uso industriale e indiscriminato di grandi quantità della preziosa risorsa, nell’inquinamento delle falde, nella privatizzazione delle sorgenti, dei grandi invasi e delle falde idriche.

 Il controllo delle fonti in Italia

In Italia fenomeno è molto diffuso. Il Pfas inquina le falde venete, mentre in Toscana l’estrazione del marmo, praticata con metodo industriale e non più artigianale, pone in competizione il consumo idrico con le necessità urbane; in Abruzzo l’inquinamento degli acquiferi del Gran Sasso è stato generato con probabilità dall’incauta gestione dell’Istituto di Fisica Nucleare, e in Campania lo sversamento illegale dei rifiuti industriali del Nord del Paese ha pregiudicato vasti territori e le falde sottostanti.

Ma vi è di più. Il governo, col cosiddetto decreto crescita, all’articolo 24 ha imposto la privatizzazione delle fonti d’acqua del Mezzogiorno, allineandosi alle politiche predatorie diffuse sul pianeta.

L’esecutivo, con decretazione d’urgenza, ha posto in liquidazione l’E. i. p. l. i. ( Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia), che gestisce gli impianti interregionali, i grandi adduttori, gli invasi, le traverse e le dighe del Centrosud Italia, sostituendolo con una SpA.

È la privatizzazione dell’acqua più grande d’Europa. L’E. i. p. l. i. nasceva nel 1947 per volontà del presidente della Repubblica provvisorio De Nicola. La prima pietra fu posta dal presidente del Consiglio De Gasperi, che diede il via alle opere, sostenute con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, allo scopo di risollevare la popolazione del Mezzogiorno stremata da una povertà endemica e dal conflitto mondiale.

Furono costruite grandi opere, che ancora oggi garantiscono acqua da bere e per l’irrigazione a milioni di persone. Il percorso di liquidazione era stato avvitato dal governo Monti nel 2011, poi il governo Gentiloni ha programmato la costituzione di una SpA.

Il governo Conte, in assoluta continuità, mette in atto concretamente il programma, completando il progetto.

Le multinazionali ( le francesi Suez e Veolia) erano già entrate nella gestione delle fonti d’acqua accaparrandosi quelle di livello regionale. Il percorso è consistito nel trasferimento delle infrastrutture dalle Regioni a una SpA a capitale pubblico, poi acquisita dai privati.

Operazioni che hanno prodotto disastri, reti colabrodo e grande profitto per gli azionisti esteri, a detrimento dei cittadini italiani.

A fronte della richiesta delle comunità locali di ripubblicizzare ex articolo 43 della Costituzione quanto incautamente già privatizzato, si completa l’operazione di speculazione, creando le condizioni per affidare le fonti idriche alle multinazionali del settore.

L'appello

Personalità di assoluto rilievo hanno lanciato un appello al presidente della Repubblica chiedendo un’inversione di tendenza. Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Consulta, Riccardo Petrella, presidente dell’Istituto europeo per le politiche dell’acqua, Giovanni Impastato, fratello di Peppino, Alfonso Pecoraro Scanio, già ministro dell’Ambiente, Rosario Trefiletti, presidente di Indagini 3, Alfonso Barbarisi, presidente dell’Associazione italiana docenti universitari, Giuseppe Desideri, presidente dell’Associazione italiana maestri cattolici, sono tra i primi firmatari.

Vi hanno aderito numerose organizzazioni, tra le quali Pax Christi, Associazione Peppino Impastato, Tavola per la Pace, Fondazione Univerde, Istituto Ispa, Coord. No Triv, Stop Biocidio, associazione Radio Aut per l’antimafia sociale, Napoli città di pace, Cmi- Confederazione Movimenti Identitari, Meridionalisti democratici, Medici per l’ambiente, Mani Tese e Associazione italiana maestri cattolici. Tutti chiedono la ripubblicizzazione dell’acqua, di dar seguito al referendum del 2011 a garanzia del diritto all’acqua, a difesa dalle infiltrazioni criminali e a tutela della sicurezza nazionale.

* avvocato, presidente Istituto Italiano per gli Studi delle Politiche Ambientali