«Di norma l’Autorità garante non commenta i singoli casi di cronaca. Tuttavia va sottolineato che – se i fatti fossero confermati – ci troveremmo di fronte a una situazione di gravità inaudita. Fatti del genere calpestano la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. E questo proprio da parte di chi è chiamato a realizzare tali diritti. Il sistema di tutela dei minorenni non può tradire la sua vocazione, che è quella di proteggere i bambini in condizione di fragilità. Ciò impone un accertamento rigoroso delle circostanze e, qualora si prenda atto delle responsabilità delle istituzioni coinvolte, ci troveremmo di fronte al loro fallimento». Il caso di Reggio Emilia è solo la punta di un iceberg, l’esempio di come il sistema degli affidamenti presenti delle carenze. Al di là del caso stesso, spiega l’autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, che parte da un punto fermo: «è su quelle carenze che bisogna intervenire. Ma servono investimenti». Che per il momento, però, latitano.

Il caso di Reggio Emilia ci porta ad interrogarci sulla situazione del sistema di affidamenti, sul quale il ministro Di Maio ha chiamato in causa il collega Fontana, chiedendone una revisione. Qual è la situazione?

Va fatta intanto una distinzione tra fisiologia e patologia. Se fossero veri i fatti emersi saremmo nel patologico. E il patologico attiene a fatti di una gravità inaudita. Questione diversa è invece il fisiologico, quindi il sistema. Il sistema presenta delle carenze e quindi bisogna intervenire su quelle, non sul sistema nella sua interezza. Carenze che vanno individuate a monte, prima che a valle e questo significa maggiore investimento nella prevenzione degli allontanamenti. Bisogna considerarli un’extrema ratio e dove possibile bisogna prevenirli con sostegno alle famiglie in situazione di fragilità, a cominciare dai primi mesi di vita del bambino, con la diffusione dell’home visiting e il supporto alla genitorialità fragile. Questo per prevenire gli allontanamenti, perché, per la Convenzione di New York, il bambino preferibilmente deve vivere nella famiglia d’origine. Se poi sono indispensabili, bisogna contenerli come misura temporanea.

Cioè i casi patologici?

Sono casi in cui l’allontantamento è necessario, perché la famiglia si trova in una situazione di grave inadeguatezza. Basti pensare ai casi di cronaca degli ultimi tempi, con genitori che hanno anche ucciso i propri figli. Ecco, quando l’allontanamento è l’unica misura possibile, occorre investire nei controlli e nella qualità del collocamento dei bambini in affido o in comunità.

In che modo?

Con più risorse all’autorità giudiziaria. La Procura minorile deve effettuare i controlli, ma ha poche risorse. Deve poter delegare alla polizia giudiziaria, che però deve essere formata, deve sapere cosa de- ve verificare perché il controllo sia efficace. L’altro investimento va fatto nel rendere pubblici i dati su dove vengono collocati i minorenni, il perché si scelga una struttura anziché l’altra e perché si scelga una famiglia anziché l’altra. Questo significa creare, per ciascun territorio, un elenco delle strutture d’accoglienza, con l’indicazione della loro specificità, predeterminare i criteri per la scelta della comunità e della famiglia. Insomma, trasparenza.

Quando i servizi sociali, come nel caso di Reggio Emilia, risultano coinvolti in casi di cronaca, come si fa a prevenire?

Rendendo conto delle modalità delle scelte amministrative. Poi, ovviamente, quando ci troviamo nel patologico quello che serve è una risposta giudiziaria.

Il sistema come può funzionare meglio?

Il sistema è una risorsa enorme e questo va sottolineato. È un esempio di solidarietà sociale ed è una risorsa per i bambini che privati dell’ambiente familiare trovano così una seconda casa in cui avere una seconda opportunità di vita. Ovviamente i nostri sforzi devono essere indirizzati verso la valorizzazione dell’affido familiare e questo comporta risorse, investimenti nella formazione, nella supervisione e nel sostegno. E poi bisogna potenziare, durante l’affido, la famiglia, per creare le condizioni per il ritorno nel nucleo d’origine.

Che dati ci sono sugli affidi?

Non sarebbe nostro compito raccogliere i dati, in quanto a noi toccherebbe acquisirli dalle amministrazioni. E la raccolta dati sui minori fuori famiglia rappresenta uno dei punti da migliorare, nel sistema generale. In ogni caso, i dati presenti sono quelli dell’autorità Garante - e a breve faremo un’altra pubblicazione - e parlano di circa 14mila ragazzi in affido e 14mila nelle comunità di accoglienza.

Su cosa dovrebbe intervenire la politica?

È necessario realizzare un intervento educativo tarato ad hoc su ogni ragazzo, un programma personalizzato, che sia in comunità o in affido familiare. Ciò implica la formazione e l’alta specializzazione di tutte le professionalità che vi ruotano intorno e quindi un problema di risorse e di costi. Ma è un investimento che conviene allo Stato, perché il ragazzo “recuperato” non si traduce in un costo quando diventa adulto. E poi occorre crederci, avere fiducia nella possibilità di invertire situazione legate alle famiglie di origine che appaiono molto fragili, ma anche avere chiarezza sulle procedure. Non dobbiamo lasciare sole le famiglie e chi si occupa dei bambini e dei ragazzi. E poi bisogna ascoltare i ragazzi, perché dalla loro voce si può comprendere se una situazione si sta evolvendo positivamente oppure no.

Quali interventi ha sollecitato ai ministeri?

L’autorità ha agito su più livelli, partecipando e condividendo l’elaborazione delle linee di indirizzo per l’accoglienza nei servizi residenziali per i minorenni, ha condiviso un tavolo con i procuratori minorili per elaborare una scheda per conoscere il numero e le condizioni dei ragazzi che vivono nelle comunità d’accoglienza, in rete con molti coordinamenti di famiglie affidatarie con cui condivide costantemente problematiche e risorse possibili. Ma non è finita qua.