Anche se il potere del “padre padrone” della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, comincia a mostrare i primi segni di cedimento, non si ferma la macchina della repressione.

E’ il caso di 16 persone che da ieri sono sotto processo nel carcere di Silivri. Rischiano l’ergastolo per aver partecipato a quella che è rimasta, nella storia recente della Turchia, come la “protesta di Gezi Park”.

Nel maggio 2013 numerosi giovani occuparono un luogo storico di Istanbul destinato alla distruzione per una speculazione edilizia. La polizia intervenne per sgomberare il presidio lasciando sul terreno una scia di sangue: in seguito alla protesta infatti si tennero manifestazioni in tutto il Paese e il movimento pagò un prezzo alto, con 8000 feriti, 4 morti e uno strascico giudiziario che ha visto procedimenti contro almeno 5000 persone.

A distanzia di 6 anni le accuse contro i protagonisti di allora sono pesanti, vengono giudicati per un tentativo di rovesciare con la forza Erdogan. Alla sbarra però ci sono figure ben note della società civile e del mondo della cultura, personaggi scomodi come l’imprenditore e attivista per i diritti umani Osman Kavala, da 19 mesi in carcere in regime di detenzione preventiva. Kavala è il fondatore e l’animatore della ong Anadolu Kultur e da anni si occupa di “dialogo interculturale”. Forse è proprio questo che da fastidio a Erdogan che, in perfetto stile sovranista, lo accusa di non precisati legami di Kavala con il «l’ebreo ungherese Soros».

Tra gli altri imputati Can Dundar, ex direttore del giornale di opposizione Cumhuriyet e l’attore Mehmet Ali Alabora. Il processo è finito sotto la lente d’ingrandimento delle ong per i diritti umani. Per Amnesty International e Human rights Watch è un procedimento giudiziario basato sul nulla in quanto esaminando le 657 pagine prodotte dall’accusa non risulta «uno straccio di prova». Il caso ha anche provocato l’intervento dell’Ue soprattutto in relazione ai periodi di detenzione spropositati.