Quando ormai frequentavo l’università solo per tenere allenata la mente a osservare il processo penale con visione non troppo settaria - nel timore che potesse rivelarsi inquinata dalla mia naturale collocazione in quella “triade di giudicanti” di carneluttiana memoria - ritenevo che proprio la comune cultura della giurisdizione avrebbe sempre prodotto magistrati del pubblico ministero capaci di comprendere – ed esercitare – la terzietà, e di farsene portavoce anche nel corso delle indagini.

Vedevo nell’articolo 358 del codice di rito le ragioni per dare all’obiettività lo stesso valore della terzietà, proprio lì dove l’assenza del giudice è solo eventuale. Dopodiché, ho imparato che lo studio del processo non può prescindere dalla quotidianità delle aule e dalla patologia delle prassi e ho compreso – anche a mie spese – che l’obiettività non può sovrapporsi alla terzietà. E in realtà non deve, perché diventerebbe un ossimoro giuridico: il pubblico ministero deve avere una sua teoria accusatoria e ha il diritto di... sbagliare! Epperò il suo potenziale errore deve poi trovare la “cura”.

Ed è proprio qui che nasce il corto circuito: lo stesso percorso per l’accesso, la medesima “scuola di formazione” prima e dopo il concorso, destinano alla magistratura requirente lo stesso “diritto di interpretazione del fatto penalmente rilevante” della magistratura giudicante e, al contempo, inducono quest’ultima a dare – anche inconsapevolmente – maggiore valore alla tesi accusatoria rispetto a quella difensiva soprattutto nella fase delle indagini, laddove il controllo è fugace e inevitabilmente poco approfondito. Una deriva giurisdizionale a cui il migliore degli avvocati riesce solo di rado a fare da argine. Una deriva giurisdizionale che contraddice quel modello processuale che ha inteso – ormai oltre trent’anni fa – ben distinguere l’accusatore dal giudice.

Potendo riconsiderare tutto, probabilmente sarebbe stato necessario discutere non su come salvaguardare il valore probatorio delle indagini ( si vedano le sentenze additive della Consulta del 1992), bensì sulla tenuta dell’obbligatorietà dell’azione penale, sul nuovo significato di “ragionevole durata” ( costituzionalizzata solo nel ’ 99 ma ancora lettera morta nelle aule di giustizia e fuori, dove si confonde con la prescrizione) e soprattutto sul senso di una colleganza dei magistrati, requirenti e giudicanti, ormai anacronistica.

Non possono essrci dunque equivoci sulla ratio di una proposta di legge come quella sulla separazione delle carriere. Proposta che – è sempre utile ricordare – rappresenta l’espressione di una volontà “popolare” e non politica. Di questo occorre ringraziare chi come Beniamino Migliucci e Giandomenico Caiazza si è battuto perché arrivasse in Parlamento, ma anche i magistrati che già con la loro partecipazione ai dibattiti sul tema dimostrano la volontà di rifuggire da posizioni precostituite. Non poteva essere altrimenti, conoscendo, per motivi squisitamente professionali, la lungimiranza e la cultura giuridica di tanti di loro.

* deputato