“E adesso?”: ecco la domanda che Salvini e Giorgetti si son fatti, con timore e tremore, lunedì notte in via Bellerio, appena scesa l’adrenalina per le proiezioni che li davano in crescita, verso il 34%. Non s’aspettavano un’onda di consenso così forte e per i Cinquestelle un crollo così netto, e non se l’auguravano. Perché la dialettica con Di Maio era per la Lega e Salvini un alibi per rimandare le scelte strategiche di fondo. Un alibi che oggi, con il trasferimento di fatto della regia del governo da palazzo Chigi al Viminale - anche se Conte ieri ha ripetuto di non sentirsi commissariato da Salvini non esiste più. Adesso la Lega deve governare. Una consapevolezza che Salvini comincia ad avere: «La gente non ci ha votato per far casino – ha dichiarato ieri il leader leghista al quotidiano La Prealpina di Varese - ma per costruire sia in Italia, sia in Europa».

E d’altra parte le parabole di Renzi ieri e di Di Maio oggi, hanno insegnato che gli italiani mettono in mano al leader di turno che avanza sulla scena il martello per tirar giù le ultime macerie del vecchio ordine, salvo darglielo in testa se poi, fatto il lavoro di rimozione, invece di costruire continua appunto a “far casino”. Solo degli ossessi infatti possono credere che i nove milioni di italiani che hanno votato Lega siano degli sfascisti o dei fascisti.

Questo 34 per cento di italiani che ha votato la Lega chiede un’Europa riformata in grado di proteggere i loro paese e le loro famiglie dagli spiriti animali della globalizzazione ma che non si chiuda nella fortezza dei revanscismi nazionalisti; che abbia al centro comunità, patrie, persone ed economia sociale di mercato; chiedono insomma l’Europa che sognavano Schuman, Adenauer e De Gaulle tradita da chi ha dimenticato a memoria il popolarismo europeo per la tecnocrazia. L’equivoco della Lega di lotta e di governo è finito. Il ministro- capitan Fracassa che ferma i barconi e combatte il buonismo col cattivismo ha funzionato fino ad oggi ma la reiterazione dell’emergenza e spesso del folklore non possono costituire il core businness di un partito di governo al 34%. Occorre altro: un grande piano di rilancio dell’economia che non può risolversi nell’aumentare il debito, la messa a punto di un federalismo nazionale che tenga insieme autonomie e solidarietà, un rapporto negoziale ma non velleitariamente conflittuale con l’Europa in generale e la Germania in particolare. Tutti punti che all’interno della Lega sono ben chiari a un’area del partito, quella vicina a Giorgetti, che si muove nel solco della realpolitik e della realtà.

E oltre questo servirebbe a una Lega di governo una prospettiva, che non può essere l’utopia regressiva del vecchio nazionalismo statalista. Una prospettiva che s’era affacciata durante il comizio di Salvini a Pontida un anno fa, a luglio, prima che diventasse dominante il tremendismo.

Oltre a Simone Weil Salvini citò dal palco di Pontida Gianfranco Miglio e Adriano Olivetti. Il teorico delle macroregioni e il capitano d’industria che negli anni 50 aveva creato in Italia il miracolo sociale di Ivrea e un movimento federalista fondato sulle comunità. In quel comizio Salvini diceva di pensare “A un’idea costituzionale che può mettere insieme Olivetti, Miglio e tutti i pensatori federalisti che immaginavano un paese di identità diverse. In Italia come in Europa”. Finora Salvini ha eccelso nella tattica, ma era solo il leader di un movimento politico in ascesa. Ora che ha la forza e la spinta per diventare altro servono la visione e la cultura politica. E lo spartito recitato da Salvini a Pontida, a differenza dei reazionarismi imbracciati in questi mesi, aveva il senso del presente e del futuro.