Anche la nave dei folli ha bisogno di qualcuno al timone. Mentre il governo, nel corso della campagna elettorale, andava sempre più somigliando a quella nave, il timone scivolava nelle mani del meno vistoso e più discreto tra i ministri di prima fila: il ministro dell'Economia Giovanni Tria.

Comunque vada a finire, una campagna elettorale che gli alleati hanno combattuto a colpi di ginocchiate reciproche sotto la cintura ha già lasciato sul terreno una vittima eccellente: il presidente del consiglio, o più precisamente la sua possibilità di fungere da garante dell'alleanza gialloverde.

Per la Lega Conte è ormai un uomo di parte che sfrutta il ruolo di garanzia per remare a favore del partito che lo ha indicato. In discussione non c'è la sua poltrona ma l'autorevolezza di cui ha per un anno goduto è irrimediabilmente perduta. Il fatto che, per frenare l'impeto leghista sull'approvazione del dl Sicurezza, abbia dovuto chiamare esplicitamente in causa il capo dello Stato, irritandolo profondamente, è il peggiore e più chiaro tra i segnali di debolezza.

Tria è a sua volta nel mirino dei 5S. Ma nel suo caso rinfacciargli un'appartenenza di partito è letteralmente impossibile, trattandosi, a differenza di Conte, di un tecnico puro. Già da un po', in particolare dalla presentazione di un Def di fatto scritto solo dal Mef, è lui che indirizza un governo per il resto in stato di permanente stallo.

Prendiamo il caso fresco del dl Sicurezza, che minacciava di rappresentare per il capo dello Stato un elemento di incresciosissimo imbarazzo istituzionale, costringendolo a prendere una posizione che sarebbe comunque apparsa come uno schieramento politico del Colle a un passo dall'apertura delle urne. A indicare la via per tirarsi fuori in extremis dal vicolo cieco è stato in realtà proprio Tria, affermando nella maniera più stentorea possibile che il decreto gemello targato 5S, quello sugli aiuti alle famiglie, era ancora privo di coperture.

Da quel momento, non essendo più possibile l'approvazione immediata e sincronica dei due decreti e stante l'obbligo di appaiare a ogni iniziativa di uno dei due soci una dell'altro socio, la via d'uscita che sembrava introvabile si è schiusa.

I 5S, che con il ministro dell'Economia sono in stato di contenzioso perenne, sul momento l'hanno presa malissimo. Per capire il senso della mossa di Tria, apprezzata invece seduta stante dal Quirinale, ci hanno messo un po'. Solo dopo un paio di giorni e un certo numero di rumorose proteste gli si è chiarito che quella era l'unica via per evitare o il varo del decreto di Salvini, che gli stessi 5S miravano a evitare, oppure uno scontro con morti e feriti a urne quasi aperte.

In quell'intervento, un paio di giorni fa, in realtà Tria è andato ben oltre. Ha detto quel che tutti sapevano ma nessuno aveva il coraggio di affermare apertamente: e cioè che gli 80 euro di Renzi devono essere cancellati. Secondo il ministro quella legge è sbagliata e malfatta, ma in ogni caso era chiaro sin dall'inizio che non sarebbe stato possibile procedere sulla strada indicata dal contratto di governo, con Quota 100, RdC e Flat Tax, conservando allo stesso tempo quella che ai tempi fu definita dagli stessi partiti che oggi governano "la mancetta di Renzi".

Nessuno però aveva sinora revocato in dubbio gli 80 euro, essendo noto che per ritirare qualcosa di già concesso un governo deve disporre di una certa dose di coraggio. Che l'abbia fatto Tria al posto di uno dei due leader e vicepremier o dello stesso capo del governo è significativo.

Tria ha accompagnato l'annuncio della prossima cancellazione degli 80 euro con uno schieramento aperto a favore della Flat Tax, aggiungendo però che la si dovrà accompagnare a misure adeguate dal lato della spesa. Poi ha fatto capire di essere favorevole a un aumento parziale dell'Iva. Allo stesso tempo il ministro è impegnato in un vero e proprio braccio di ferro con i 5S, ostili al suo progetto di riforma del Mef, con la creazione di un quinto dipartimento dedicato agli investimenti.

L'idea non va giù a Di Maio, che teme la notevole autonomia che il dipartimento assumerebbe in un settore chiave. ma piace alla Lega e alla Ue, che non cessa di martellare proprio sul tasto dolente degli scarsi investimenti.

La realtà è che oggi, con un governo lacerato dalla guerriglia continua e con un premier depotenziato, il solo che possa affrontare il passaggio al altissimo rischio della prossima legge di bilancio con qualche possibilità di farcela è proprio Tria, forte dell'appoggio del Quirinale, della credibilità di cui dispone a Bruxelles e di una crescente sintona con la Lega.

Dato e non concesso che dopo le elezioni il governo riesca a evitare la crisi, nessuno chiederà la testa di Conte e neppure rimpasti di sorta. Ma la Lega farà valere il suo peso accresciuto in ogni singola scelta e punterà proprio su Tria come guida effettiva del governo sul fronte decisivo dell'economia e dei rapporti con la Ue.