In teoria è solo un parere. Ma viene dalla Corte dei Conti siciliana, e ha dunque un notevole peso, non circoscritto all’ente che aveva chiesto al giudice contabile di esprimersi, ossia la Provincia di Agrigento. La deliberazione, depositata lo scorso 29 aprile col numero 88/2019, afferma che l’ente pubblico è tenuto alla «erogazione dei compensi», spettanti agli avvocati interni in relazione alla singola causa, solo a fronte di «sentenze che definiscono la fase di giudizio». Nessun “onorario”, dunque, per tutte quelle controversie concluse con «provvedimenti decisori di natura diversa». Compenso professionale pari a zero se il giudice decide sì, e in modo favorevole all’ente, ma con un’ordinanza, o con un decreto. In tali casi i difensori «incardinati nelle strutture pubbliche» trovano «ristoro» solo nello «stipendio tabellare».

Già la cosa è spiazzante in sé. Secondo il parere dei giudici contabili, il legale svolge una funzione di rilievo, e dunque meritevole di un riconoscimento, solo se la lite si conclude con «sentenza ». Ma la «opzione interpretativa» ha risvolti ancora più gravi. «Può diventare il grimaldello che farà sentire alcune pubbliche amministrazioni legittimate a eludere il principio dell’equo compenso», spiega Antonella Trentini, presidente di Unaep, l’associazione che rappresenta tutti gli avvocati in servizio presso gli enti. L’allarme non è infondato. «Se qualche amministrazione locale cominciasse ad aggrapparsi al parere siciliano», osserva Trentini, «si potrebbe arrivare al disconoscimento anche dell’attività prestata dai nostri colleghi del libero foro che assumono gli incarichi dati dagli enti all’esterno. Basterà inserire nei bandi una clausola secondo cui non è prevista alcuna retribuzione per le controversie che si concludono con provvedimento decisionale di forma diversa dalla sentenza».

L’Unaep ovviamente è sconcertata innanzitutto per l’interpretazione sbrigativa, e evidentemente contraria alla legge, con cui la Corte dei Conti siciliana mortifica la professionalità degli avvocati pubblici. «Lo “stipendio tabellare”», ricorda Trentini, «è il corrispettivo della infinita attività extra giudiziale, di consulenza innanzitutto, prestata dai legali interni agli enti». Tante controversie che vedono coinvolti Comuni o altre amministrazioni si concludono con ordinanze. Solo per citare un ambito divenuto cruciale negli ultimi mesi, il giudice deciderà con ordinanza e non con sentenza quando un rifugiato gli si rivolgerà dopo che un Comune gli abbia revocato lo status. L’interpretazione della Corte dei Conti siciliana pare sbagliata perché trasfigura due passaggi del decreto 90 del 2014.

In particolare, due commi dell’articolo 9. Il terzo, innanzitutto, in cui si parla in effetti di “ sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti”. Solo che quel comma non si riferisce al «compenso professionale» spettante al legale per la singola causa vinta, ma appunto alla parte che gli è dovuta nel riparto delle spese quando le si riesca a recuperare. Nulla a che vedere con l’“onorario”: ma il giudice contabile siciliano non se n’è accorto. Viene citato anche il sesto comma, in cui si stabilisce che l’avvocato pubblico “merita” il compenso da parte del suo ente anche quando in una causa, pur conclusa vittoriosamente, il giudice compensa le spese. La Corte siciliana ritiene che la norma sia riferibile sempre e solo alle «sentenze» e non ai «provvedimenti di natura diversa». Ma sbaglia di nuovo: il comma evoca testualmente “ tutti i casi di pronunciata compensazione delle spese”. Il parere presta insomma, come dice Trentini, «il fianco ad argomentate critiche, e si confida in un ripensamento, di quella sezione o di altre». Ma il rischio che diventi un’arma impropria nelle mani di enti capziosi esiste eccome.