Neanche il tempo di rifiatare che, da una data simbolo come il 25 aprile, festa di liberazione e della democrazia, si passa subito a quella del 1° Maggio, festa del lavoro e dei lavoratori. Così, dopo un sospiro, la prima cosa che viene alla mente è che c’è stato un tempo, un tempo molto lungo, in cui queste due date marciavano quasi di pari passo. Quasi avessero la stessa valenza e un pressoché analogo significato. Poi è successo che, mentre la prima è divenuta oggetto di una disputa e di una querelle tutta politica che ha finito per rinvigorirla, la seconda ha rischiato di rimanere sullo sfondo come un antico retaggio cerimoniale di pochi e residuali aficionados.

Ma, mentre il 25 aprile è una ricorrenza propriamente nostra, identitaria, paragonabile all’Indipedence Day degli Stati Uniti o alla presa della Bastiglia del 14 luglio francese, da sempre la festa del lavoro è riconosciuta e celebrata in più di ottanta Paesi distribuiti nei 5 continenti. Dall’India all’Argentina, dall’Australia al Pakistan, dalla Germania al Messico, dal Venezuela alla Finlandia. Per cui vien quasi spontaneo chiedersi se del primo maggio in Italia davvero non resti altro che il concertone di piazza San Giovanni a Roma? D’altronde, è evidente l'affanno delle storiche sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil a reggere il passo del cambiamento e tenere alte le bandiere dell’unità, della difesa dei posti di lavoro e dei diritti sociali. Oggi gran parte degli iscritti sono quelli della lega dei pensionati. E anche le nuove espressioni del sindacalismo di base non sembrano incontrare minori difficoltà. Perché questa calo di fiducia? Perché questo distacco dal comune sentire dei lavoratori che in larga parte non si sentono più né difesi né tutelati? Eppure è anche merito di quelle organizzazioni sociali se il nostro ( bistrattato) welfare, la nostra ( diroccata) scuola e la nostra ( spesso mala) sanità continuano a rappresentare una certezza alla portata di tutti.

In una delle sue forse più sgradevoli, ma anche più efficaci metafore, l’ex premier Matteo Renzi liqui- dò la difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori con: «E’ come prendere un Iphone e dire dove metto il gettone?». Era il 2014, soltanto cinque anni fa e sembra passata tutta una vita. Con quella battuta il leader del Pd mise in ginocchio il sindacato di riferimento e, probabilmente, segò pure il ramo sul quale era seduto. Ma, soprattutto, svelò il significato vero del populismo: saltare i corpi intermedi ( sindacato, associazioni di categorie, ordini professionali) e rivolgersi direttamente al popolo. Com’è andata a finire, s’è poi visto.

Certo! Molte, moltissime cose sono cambiate nei sistemi di produzione e nella distribuzione delle merci, nei ritmi e nei processi produttivi, ma ciò non significa che siano venute meno le contraddizioni e che le disuguaglianze non siano aumentate. Anzi!

Due esempi per intenderci: Facebook e Amazon. L’invenzione di Mark Zuckerberg ci dice che oggi la produzione della ricchezza non viene più soltanto dalla trasformazione della materia prima ( carbone, petrolio, metallo, agricoltura, pesca). La ricchezza può scaturire anche dalla manipolazione dei dati ( personali e immateriali) dei singoli consumatori quali: età, bisogni, abitudini e gusti. Il colosso di Jeff Bezos, invece, ci dice che oggi la distribuzione delle merci ( materiali) può portare addirittura più ricchezza che non la loro produzione su vasta scala. Un mondo completamente rivoluzionato, dunque, che alla globalizzazione delle opportunità e dei servizi e degli scambi non è ancora riuscito ad accompagnare opportunità e uguaglianza dei diritti. E’ di pochi giorni fa la notizia del sito americano The Verge che denunciava il licenziamento di centinaia di lavoratori dello stabilimento Amazon di Baltimora in “base all’algoritmo che ne misurava la produttività”. Altro che gettone del telefono. In questo caso sembra di esser tornati al padrone delle ferriere. Forse anche per questo, e con tutti i limiti delle nostre organizzazioni sindacali, val la pena continuare a festeggiare il 1° Maggio riflettendo sul senso delle lotte e delle conquiste dei diritti dei lavoratori, che in fondo sono quelle di ciascuno di noi.