Nel giro di una settimana o poco più Armando Siri non sarà più sottosegretario. Di Maio ha alzato troppo la vicenda, ci ha scommesso sopra tutto. Non potrebbe accettare esito diverso. Conte è uomo di mondo e se ne rende perfettamente conto. Salvini non farà sfracelli, non ritirerà la fiducia a Conte, non farà cadere il governo. Il leader della Lega è troppo accorto per non sapere che provocare la crisi su una materia del genere significherebbe mettere a rischio la popolarità costruita con lavoro sapiente in questi mesi ed esporsi all'accusa di riproporre il “metodo Berlusconi”. Protesterà, strepiterà ma si piegherà. O fingerà di piegarsi.

Non significa che il copione sia già tutto scritto. C'è una variabile importante se non decisiva. Conte userà tutte le sue doti diplomatiche per convincere Siri, ma anche Salvini, a dimettersi “spontaneamente”. Farà capire che non c'è alternativa alle dimissioni: non è forse meglio fare un bel gesto che ritrovarsi defenestrati? Prometterà reintegro con tutti gli onori se la magistratura non rinvierà a giudizio. Soprattutto farà pesare il “senso di responsabilità”, la salvezza del governo. La risposta di Siri ( e di Salvini) non è affatto irrilevante. Al contrario. Andarsene senza arrivare allo psicodramma di una spaccatura in sede di cdm, con il premier che propone la revoca, i ministri pentastellati che approvano e quelli leghisti che si oppongono ritrovandosi in minoranza, lascerebbe uno spiraglio aperto alla ricomposizione futura. La ferita sarebbe comunque profonda, la cicatrizzazione difficile ma non impossibile.

In caso contrario, se si arrivasse al voto con i ministri schierati gli uni contro gli altri, anche quell'esigua possibilità di riappacificazione svanirebbe. Salvini eviterebbe comunque la crisi immediata. Lo ha già fatto chiaramente capire ai suoi ufficiali. Ma da quel momento sarebbe guerra aperta e su tutti i fronti. L'obiettivo della Lega non sarebbe più, come è stato sinora e come in parte ancora è, tenere in vita il governo quanto più a lungo possibile il governo per vampirizzare progressivamente i consensi degli alleati. La missione diventerebbe quella di combatterli su ogni singolo provvedimento per esasperarli e costringerli a rompere, assumendosi la responsabilità del tracollo. Un peso che, sin dagli esordi del governo gialloverde, Salvini intende evitare a ogni costo di accollarsi.

Per il vicepremier verde non sarà difficile convincere i suoi a muoversi in questa bellicosa direzione. Il grosso dello stato maggiore leghista non vede l'ora di liquidare i soci e fosse per loro lo avrebbero probabilmente già fatto. La diga, sin qui, è stata rappresentata praticamente solo dal capo.

Sulla carta l'esito meno lacerante, le dimissioni rassegnate da Siri a denti stretti ma senza essere cacciato ufficialmente, non è escluso. I leghisti non esitano infatti ad ammettere che se i 5S si fossero mossi in altro modo, cercando di concordare una soluzione invece di partire all'attacco come mai prima era successo in questi mesi, Siri si sarebbe anche potuto sacrificare. Probabilmente lo stesso Di Maio ne è e ne era consapevole. Solo che una soluzione raggiunta senza il fragore dello scontro diretto non gli sarebbe servita a niente. La “guerra di Siri” risponde infatti a diverse esigenze. E' certamente una chiamata alle armi in nome dell'unica vera bandiera che il Movimento abbia sempre sventolato, il cuore del dna pentastellato, cioè il giustizialismo e in particolare quello che colpisce i politici. Ma non c'è solo questo. Di Maio mira anche a dipingere di azzurro, il colore forzista, i verdi vessilli leghisti: la campagna su Siri mira a imporre un'immagine della Lega molto simile a quella di Fi, un partito in odore di mafia almeno in alcuni suoi lembi, un partito che non ha mai reciso davvero i legami con Arcore, tanto che Arata, l'industriale dell'eolico che avrebbe secondo gli inquirenti erogato la tangente per Siri e il cui figlio è stato assunto da Giorgetti, è dipinto dai 5S come, “uomo di raccordo” tra Lega e Fi. Ma forse ancora più importante di queste due spinte è la terza: dimostrare che il Movimento non è affatto subordinato alla Lega e che se del caso è pronto a mettere il ruggente Salvini ruvidamente al tappeto. Su Siri Di Maio non cercava una soluzione pacifica. Voleva una prova di forza.

Per questa via, però, i rapporti tra i due partiti, già compromessi, hanno finito di guastarsi e quelli tra i due leader hanno subìto un colpo micidiale. In particolare le accuse, velate ma neppure troppo, di combutta con la mafia sono state vissute dal Carroccio come un affronto intollerabile. Alla fine Di Maio la spunterà nel braccio di ferro su Siri perché, per come ha messo le cose, non può permettersi di uscire sconfitto. Potrebbe essere la proverbiale vittoria di Pirro.