Il detenuto che ha una patologia mentale sopravvenuta può essere curato fuori dal carcere come quello che ha una patologia fisica. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 99 ( relatrice Marta Cartabia) depositata ieri, mette così fine al vuoto legislativo che ha creato la mancata inclusione dell’infermità psichica insieme a quella fisica. In particolare, d’ora in poi, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni ( abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. Con questa sentenza la Corte costituzionale risolve il dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. Secondo i giudici della Consulta la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Perciò la Corte ha accolto la questione sollevata dalla Cassazione e anche il “rimedio” dalla stessa individuato, vale a dire l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga” ( articolo 47 ter, comma 1 ter, dell’Ordinamento penitenziario), anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, che è in grado di soddisfare tutti gli interessi e i valori in gioco. «La sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti – si legge nella sentenza – si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate». Al giudice spetterà verificare se il detenuto, invece che rimanere in carcere, debba essere trasferito all’esterno, “fermo restando che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti nel singolo caso le esigenze della sicurezza pubblica”. Il tema, dopo l’attuazione della riforma penitenziaria che ha tralasciato la questione del disagio psichico in carcere, era stato sollevato recentemente dall’ultima relazione del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. «La mancata inclusione dell’infermità psichica – si legge nella relazione – insieme a quella fisica tra le cause di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena ( articolo 147 codice penale) e l’eliminazione della norma che, modificando l’attuale articolo 65 o. p., avrebbe introdotto negli Istituti penitenziari sezioni a gestione sanitaria destinate alle persone che hanno elaborato disturbi di natura psichica durante la detenzione in carcere, hanno privato dei necessari interventi un’area fortemente critica». È appunto l’area del disagio psichico, «la cui entità si manifesta in una quotidianità segnata da difficoltà relazionali che possono talvolta essere lette alla base dell’elevato numero annuale dei suicidi». Il Garante nazione sottolinea che «la scelta operata dal governo appare incompleta anche nell’ottica di una visione di politica giudiziaria centrata sulle condizioni all’interno e non proiettata verso il fuori». Il Garante ne affida, pertanto, la riconsiderazione al Parlamento perché provveda, con «l’urgenza dettata dalla situazione attualmente riscontrabile negli Istituti penitenziari, a definire organicamente la materia del disagio psichico in carcere». Il Parlamento non si è mosso, ora l’ha fatto la Consulta.