Clima sempre più teso al Nazareno. Il segretario Nicola Zingaretti ha infine perfezionato - dopo la scelta dell’ex premier Paolo Gentiloni alla presidenza - le nomine dei suoi due vicesegretari: uno, l’ex ministro Andrea Orlando, espressione della sinistra Pd ed ex sfidante di Matteo Renzi alle primarie; l’altra, Paola De Micheli, parlamentare e manager di Piacenza, diretta emanazione dell’area che fa riferimento al segretario. Neanche a dirlo, la scelta dei due nomi ha mandato su tutte le furie i renziani. “Se questo è il nuovo corso di partito aperto voluto da Zingaretti…” commentano caustici i dirigenti del vecchio corso. Già scettici sulle aperture del neosegretario alle aree esterne al Pd e soprattutto ai fuoriusciti della traumatica scissione dell’anno scorso, si sono sentiti doppiamente traditi: non solo dentro gli ex, ma fuori dai ruoli di segreteria la minoranza interna.

Insomma, un full del segretario e nemmeno le briciole agli altri. Tecnicamente, il segretario che vince costruisce la squadra ed è nel pieno potere di farlo, osservano i renziani, ma ciò non toglie che l’afflato unitario di Zingaretti avrebbe dovuto legittimamente far pensare ad altro. “Siamo passati dalla gestione unitaria alla gestione proprietaria…” si dice nella minoranza. In ogni caso, la linea renziana è quella di non manifestare troppi malumori: farli percepire sì, ma senza proteste eclatanti. Quelle, se del caso, potrebbero servire dopo il 26 maggio. Le elezioni europee, infatti, saranno il primo duro banco di prova per il nuovo corso dem, la vera prova del nove sulla correttezza della linea inclusiva del segretario, almeno per quanto riguarda i posti in lista. I sondaggi danno il partito in lieve discesa rispetto ai 5 Stelle e la Lega al 33%, ma la verità la diranno solo le urne. Eppure, il nodo dei due vicesegretari in segreteria è solo l’ennesimo screzio.

Il solco che si sta scavando tra le due anime del Pd è sempre più profondo: la questione umbra e le dimissioni di Catiuscia Marini ( raggiunta da un’indagine sulla gestione dei concorsi nella sanità e dimessasi qualche giorno fa, pur in polemica col giustizialismo del Pd) sono una ferita che brucia più che per l’indagine in sé, per il distacco del segretario Zingaretti. In particolare, poi, proprio il fronte più garantista (capitanato dallo stesso Renzi e dall’ex candidato alle primarie, Roberto Giachetti), mal ha digerito la mancata difesa della presidente della regione da parte del partito, soprattutto a fronte di un’indagine appena nata. La percezione, infatti, è stata quella di una segreteria disposta a sacrificare una dirigente sull’altare dei sondaggi elettorali, che minacciavano picchiate dopo lo scandalo. E a rischiarare il clima teso non ha certo aiutato proprio la nomina a vice di De Micheli, tra le prime insieme a Roberto Calenda ad attaccare duramente Marini.

Proprio questo scambio esacerbato di battute ha riverberato anche sul rapporto tra segreteria politica e gruppi parlamentari. In particolare nel gruppo al Senato, roccaforte renziana capitanata dal capogruppo Andrea Marcucci e vero luogo chiave dell’opposizione al governo ( dove i numeri sono più risicati), i rapporti con il segretario sono sempre più tesi. Pessimo clima alla riunione tra senatori e Zingaretti nei giorni scorsi, senza dibattito e solo con telegrafiche comunicazioni da parte del segretario e del capogruppo, in agenda è previsto un nuovo incontro il 7 maggio. Proprio in questa sede, gli auspici di Zingaretti sono di riuscire a far breccia tra i senatori per creare “un rapporto serio, collaborativo e profondo”. Una speranza che, però, cozza contro una realtà di malumori interni che chissà per quanto potranno essere ancora lasciati correre sotto traccia.