Il suo nome era Vincenzo Di Gennaro. Enzo per gli amici. Cullava sogni e coltivava speranze. Come ciascuno di noi. Aveva 47 anni e una compagna, Stefania. Presto si sarebbe sposato. Invece, in un sabato di aprile, in una piazzetta di un paese alle pendici del Gargano, quell’uomo è morto. Ammazzato soltanto perché indossava la divisa dei Carabinieri. Immediatamente la notizia è rimbalzata su tutti i siti e i social. Poi sono arrivate le televisioni e la carta stampata. E un coro unanime s’è levato nel Paese. Tutti stretti nel cordoglio e nella vicinanza all’Arma. Mentre una bandiera tricolore veniva poggiata come un velo pietoso sulla macchina con la striscia stilizzata sulla carrozzeria. Come se quel sangue versato su quella piazza di Cagnano Varano rappresentasse la catarsi, la purificazione dell’Arma dopo una settimane ( e mesi) di dolorosa passione.

Dapprima la lettera del generale Giovanni Nistri alla famiglia Cucchi. Non soltanto scuse per le botte che avevano portato a morte Stefano. Soprattutto la denuncia delle falsità e del depistaggio perpetrato dai propri commilitoni. Fino a ipotizzare la costituzione dell’Arma come parte civile nel processo in corso. Poi le immagini e la voce in tv di Francesco Tedesco, uno dei militari imputati per quell’omicidio che è diventato il super teste contro i colleghi coimputati. Quindi le polemiche seguite alle parole di Sergio De Caprio. Il famoso “Capitano Ultimo' ( noto per aver arrestato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, nel lontano 1993) ha criticato apertamente il comandante generale dei Carabinieri: ' Per dieci anni il vertice dell'Arma ha ignorato e negato il ' caso Cucchi'. Ora se ne accorge. Ritardo ingiustificabile”.

A febbraio era emersa un’altra storia di depistaggio riguardo alla vicenda di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce, uccisa nel 2001 nella caserma dei carabinieri del suo stesso paese in provincia di Frosinone. Lo hanno confermato le analisi del Ris egli stessi Carabinieri. E, ancora, a ottobre scorso, l’imbarazzo dell’Arma per la prima condanna a 4 anni e 8 mesi ( con rito abbreviato) per il carabiniere Marco Camuffo accusato a Firenze, insieme al collega Pietro Costa ( che andrà a processo il prossimo 10 maggio), di aver abusato di due studentesse ventenni dopo averle riaccompagnate a casa con l’auto di servizio da una discoteca.

Macchie difficili da cancellare in una storia pur segnata da quotidiani e normali atti di eroismo, dalle Alpi alla Sicilia. Dalle zone terremotate agli incidenti sulle strade. Dalla lotta alle cosche alle azioni di peace keeping nelle zone calde del mondo. Atti e gesta quotidiani suggellati dal testo di quella splendida canzone che Giorgio Faletti tanti anni fa portò a Sanremo: “… e siamo qui con queste divise. Che tante volte ci vanno strette. Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette. E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo Paese. Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese. E c'è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù. E farla scendere è una parola, se chi ci ammazza prende di più di quel che prende la brava gente..”

E infatti, secondo Eurispes, resta ancora altissima la fiducia dell’opinione pubblica verso l’Arma dei Carabinieri. Un livello del 69,4%, calcolato nel 2018. Probabilmente, se l’Italia anche sul piano della sicurezza e della lotta al terrorismo ha fin qui dimostrato grandi capacità di prevenzione, il merito va a questi uomini in divisa, spesso bistrattati se non strumentalizzati. Come è avvenuto anche sabato dopo il grave fatto di sangue in provincia di Foggia. “Pena di morte” qualcuno ha rilanciato. Non c’è bisogno di seppellire nuovamente Cesare Beccaria. E nemmeno di un’inasprimento specifico delle pene. Quel che serve è che non si abbassi mai la guardia di fronte al crimine organizzato e l’impegno nel costrasto della microcriminalità diffusa. Quella maggiormente avvertita dai cittadini. E serve che la trasparenza continui a restare un valore primario per chi esercita funzioni istituzionali e amministra pene e giustizia. Altrimenti la retorica patriottica ( come anche quella inneggiante a Dio e famiglia) potrà pure trionfare, ma soltanto come metafora di una civiltà senza presente. E, soprattutto, senza futuro.