Se c’era un canale Rai in cui potevi sfuggire dalla solita offerta, questo era Rai Movie: tutti film, solo film, film a tutte le ore, film di tutti i generi. Usiamo il passato perché è notizia di queste ore che nel nuovo piano industriale dell’ad Fabrizio Salini è prevista la chiusura di Rai Movie e di Rai Premium ( il canale in cui vengono replicate le fiction). La protesta si è fatta subito sentire e in rete è possibile trovare e firmare diverse petizioni per impedire che il progetto venga portato a termine. Ma la cosa più grave è un’altra: la chiusura - che in un comunicato di viale Mazzini viene definito accorpamento - si realizza per dare spazio ad altri due canali, tarati sugli uomini e sulle donne. Una divisione di genere che ha scatenato critiche, ironie, indignazione, come se la Rai volesse tornare ai ruoli che un secolo di storia e di battaglie delle donne hanno provato a ribaltare, in molti casi riuscendoci.

La Rai minimizza, dice che non si torna al passato, ma che si tiene conto dei gusti del pubblico. Ma le critiche restano, a partire dalla soppressione di Rai Movie.

LA CONCORRENZA NETFLIX

La questione della cancellazione dei due canali dedicati ai film e alle fiction è legata alla concorrenza delle piattaforme streaming che hanno un’offerta per tutti i gusti di serie tv, film, documentari. La tv pubblica, è la preoccupazione del sindacato dei giornalisti Usigrai, non può pensare di affrontare la sfida privandosi di due punte di diamante. Invece di aumentare l’offerta, la dimezzano, rinunciando a un mercato strategico. Il problema sarebbero gli ascolti. Rai Movie e Rai Premium non vanno oltre poco più dell’ 1 per cento a testa di share, troppo poco per un mercato pubblicitario ghiotto di pubblico. Ma l’ 1 per cento è la media dei canali di nicchia e i costi danno ragione a chi difende la rete che trasmette solo film: Rai Movie costa un milione l’anno, per un guadagno di 6 milioni. Non male per essere una nicchia. La questione va però al di là degli ascolti. La domanda da farsi è se la tv di Stato possa ragionare solo in termini di audience. Il servizio pubblico dovrebbe avere a cuore, oltre al contenimento dei costi e degli sperperi, anche la qualità dell’offerta. Non solo share, ma cultura. Non solo audience, ma società. Non solo applausi, ma programmi capaci di accompagnare i grandi cambiamenti della società italiana. Abbiamo scritto nel titolo che vogliono tornare agli anni Cinquanta. È vero dal punto di vista della divisione dell’offerta in “cose” da uomini e in “cose” da donne. Ma nel decennio successivo, gli anni Sessanta, la tv era concepita come un contenitore educativo, con la vocazione ad essere al servizio del Paese. Allora governava la Democrazia cristiana che volle scommettere sul piccolo schermo, vincendo la sfida di arrivare a tutto il Paese. Non si può invocare un ritorno al passato, anche in questo caso. Ma non si può dimenticare che la Rai, ancora oggi, è la nostra più importante industria culturale.

QUESTIONE DI MARKETING?

La precisazione inviata, dopo le polemiche, da viale Mazzini non smentisce la creazione di due canali specializzati rispettivamente per un pubblico femminile e per un pubblico maschile. Lo si giustifica con gli studi di marketing, ma al fondo c’è una idea della società davvero anacronistica: agli uomini spetta la sfera pubblica, alle donne la cura e la casa. La divisione non sarà così netta. L’idea stessa però di dividere il pubblico sulla base del “genere” non fa che confermare stereotipi e pregiudizi. Se anche la società fosse ferma a questa idea - non credo lo sia - il compito di una Rai pensata come servizio pubblico dovrebbe essere quello di abbattere quella divisione, di criticare le barriere, di costruire una nuova cultura. Si vorrebbe fare il contrario: utilizzare una odiosa divisione, alla base del potere di un sesso sull’altro, per fare audience, per diventare competitivi non sulla qualità ma sui numeri. Nel canale delle donne verranno proposte trasmissioni sul cucito, sulla cura dei bimbi e di gossip? Su quello degli uomini si parlerà di business, politica e pesca? Non sarà così, sarà una proposta più soft, ma la divisione resterà lì come esempio, come modello di società. Poi sarà la volta della scuola, delle classi separate di bambini e di bambine, poi della famiglia, poi del lavoro.

Il piano dell’ad Fabrizio Salini propone anche di unificare tutta l’informazione sotto un’unica direzione, mettendo a rischio il prezioso valore della pluralità. Ma non è il caso di fermarsi e ragionare un po’?