«I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria, e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale».

Sono i principi costituzionali ai quali si ispira la sentenza che definisce sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per il reato che punisce lo spaccio di stupefacenti per le cosiddette “droghe pesanti”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 40 depositata ieri ( relatrice Giudice Marta Cartabia), ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo Unico sugli stupefacenti ( D. P. R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei.

La Corte ha anche dovuto sottolineare che «è rimasto inascoltato il pressante invito al legislatore affinché si procedesse rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio», anche in considerazione «dell’elevato numero di giudizi pendenti e definiti aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti».

In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria ( otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità ( quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza ( articolo 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena ( articolo 27 della Costituzione). La rimodulazione da otto a sei anni del minimo edittale per i fatti non lievi è stata ricavata dalla normativa in materia di stupefacenti. Questa misura, infatti, è stata ripetutamente considerata adeguata dal legislatore per i fatti “di confine”, posti al margine delle due categorie di reati.

La dichiarazione di incostituzionalità arriva dopo che la Corte, con la sentenza n. 179 del 2017 aveva invitato in modo pressante il legislatore a risanare la frattura che separa le pene per i fatti lievi e per i fatti non lievi, previste, rispettivamente, dai commi 5 e 1 dell’articolo 73 del d. P. R. 309 del 1990.

Quell’invito è rimasto però inascoltato cosicché la Corte ha ritenuto ormai indifferibile il proprio intervento per correggere l’irragionevole sproporzione, più volte segnalata dai giudici di merito e di legittimità. La questione di illegittimità costituzionale è stata sollevate nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una fattispecie di detenzione di circa cento grammi di cocaina, occultati all’interno di tre condensatori per computer, contenuti all’interno di un pacco proveniente dall’Argentina.

È stata la Corte d’appello di Trieste ha sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ( Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto con gli art. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4- bis del decreto- legge 30 dicembre 2005, n. 272.

Ma, come detto, sempre in sei anni il legislatore aveva individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d. P. R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d. l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”.

In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi.