Tra vertici delle istituzioni campeggia un marcato pessimismo: la convinzione che stavolta la pur ferma determinazione dei due leader a restare insieme potrà evitare il botto, l'esplosione, la crisi di governo. Se si guarda alla narrazione dei protagonisti, una crisi sulla Tav sarebbe davvero poco concepibile. La via d'uscita, almeno per ora, sarebbe infatti a portata di mano: via libera ai bandi, per impedire il blocco dei finanziamenti europei con quasi garantita richiesta di restituzione del dovuto e per evitare il tracollo del governo, ma con una ' clausola di dissolvenza' che, rendendo possibile la revoca senza penali entro sei mesi, consentirebbe ai 5Stelle di salvare almeno parzialmente la faccia.

Quella via d'uscita, in buona misura truffaldina dal momento che una volta lanciati i bandi la revoca sarebbe quanto molto improbabile, è però un'opzione in discussione già da parecchi giorni, anzi da settimane, e sin qui non ha evitato il precipitare della situazione sino all'orlo del baratro. Perché se la Tav è un detonatore di tutto rispetto, non solo un tipico casus belli, è pur vero che l'esplosivo è stato accumulato nel corso dell'intera esperienza di governo gialloverde. La narrazione ufficiale, quella per cui tutto va bene e solo quella dannata tratta ad alta velocità rischia di rovinare un matrimonio altrimenti felice, è bugiarda. Al contrario il percorso dell'esecutivo gialloverde è stato invaso da una quantità di rospi giganteschi che ora l'uno ora l'altro dei soci hanno dovuto ingoiare e ad entrambi è rimasto parecchio amaro in bocca. Sull'immigrazione, per esempio, non si può dire che tra i contraenti della maggioranza ci fossero differenze sostanziali. I 5S avrebbero però di gran lunga preferito un profilo più basso, una messa in scena meno drammatizzate, senza navi piene di profughi in mezzo al mare per lunghi giorni. Niente da fare: per Salvini quella teatralizzazione della questione era essenziale e i 5S non solo hanno fatto buon viso a cattivo gioco ma, alla fine, hanno anche dovuto giurare di aver condiviso la scelta di impedire lo sbarco ai migranti della Diciotti, violando il loro dogma per cui le autorizzazioni a procedere si concedono sempre e comunque. Su fronti diversi da quelli dell'immigrazione è andata anche peggio. Di Maio ha acconsentito a far passare una legge sulla legittima difesa che per molti dei suoi parlamentari ed elettori è odiosa. Ha concesso il via libera ad alcune grandi opere, a partire dal Tap, il cui blocco era in testa all'agenda pentastellata prima delle elezioni. Si prepara, se il governo sopravvivrà, a siglare un accordo sulle autonomie di Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna che inciderà molto più di una riforma costituzionale e si avvicina molto al modello che avevano in mente, agli albori della Lega, Bossi e Gianfranco Miglio, il teorico del primo Carroccio.

Ma la Lega ha concesso altrettanto, forse di più. Il Reddito di Cittadinanza è una misura che fa venire l'orticaria non solo a moltissimi dirigenti leghisti ma a una percentuale forse anche maggiore dei loro elettori. Per aprire la strada al RdC, peraltro, Salvini ha rinunciato a una delle riforme centralissime per la lega: la Falt Tax. Altrettanto rilevante la concessione a M5S della guida dell'Inps, postazione fondamentale per blindare il RdC.

I soci hanno pagato entrambi prezzi salati all'alleanza. Non è qui l'asimmetria ma nei risultati: più che positivi per Salvini, disastrosi per Di Maio. E' proprio questo bilancio in rosso, interpretata come punizione dell'elettorato per i troppi cedimenti, a spiegare la decisione dei 5S di puntare i piedi e giocarsi tutto in una sfida quasi impossibile: una partita nella quale i 5S si trovano contro tutti, dalla Ue a Confindustria, dal Parlamento alla popolazione piemontese ( ma non quella della val Susa) sino ai soci di governo. Una partita impossibile anche perché alla fine l'eventuale revoca del trattato con la Francia dovrebbe essere ratificata dal Parlamento, ed è fuori discussione che la Lega possa farlo.

E' possibile che i due partiti puntassero su un ammorbidimento nella fase finale. Ma a ostacolare eventuali tentazioni dell'ala pentastellata più governista ci si sono messi i consiglieri comunali torinesi, che minacciano di far cadere la giunta Appendino e i senatori no Tav, sufficienti, ove abbandonassero il movimento, a lasciare il governo privo di maggioranza. Anche Salvini, del resto, deve fare i conti con la sua base e i suoi referenti sociali nelle regioni del nord: le roccaforti leghiste. Forse alla fine una soluzione certamente pasticciata i governanti la troveranno. Forse no. Anche se salveranno per un pelo il governo, le cicatrici resteranno incise a fondo e non permetteranno al governo di procedere a lungo comunque. Nessuna suspence, invece, su cosa aspetta il paese dopo la crisi, quando arriverà: le elezioni anticipate, senza alternativa possibile.

Per i 5S sono un incubo ma il partito di Di Maio è isolatissimo e persino al Quirinale le elezioni anticipate vengono ormai considerate come probabilmente inevitabili. Berlusconi ha rinunciato al miraggio di un ribaltone ed è pronto a candidare Salvini premier nelle elezioni politiche. Il Pd, fino alle primarie terrorizzato dal voto, ha letteralmente rovesciato la posizione: oggi nessuno vuole correre alle urne più di Zingaretti. Un voto subito gli permetterebbe infatti di usufruire dell'effetto novità, delle speranze suscitate in una parte dell'elettorato deluso di centrosinistra dalla svolta rispetto al renzismo, della ricaduta negativa del fallimento del governo. Solo con le elezioni, inoltre il nuovo segretario del Pd, acquisirebbe davvero il controllo sui gruppi parlamentari e solo in una nuova legislatura il Pd potrebbe giocare a tutto campo, aprendo una interlocuzione oggi impossibile con i 5S. Si sa che Nicola Zingaretti è un uomo fortunato. Stavolta la sua buona stella potrebbe chiamarsi Tav.