«E ricordatevi che stasera io e tutti voi non staremmo qui a festeggiare la vittoria in Abruzzo e gli straordinari risultati finora ottenuti, se non ci fosse stato Umberto Bossi… Anche se certo spesso mi ha anche mandato a quel paese». Matteo Salvini, il “capitano” della Lega nazionale che ha sfondato il muro del centro- sud, l’impresa che a “Umberto” non riuscì o forse non interessava, sorride all’indirizzo del gran “capo” padano, fondatore della Lega Nord ( per l’Indipendenza della Padania). Il leader leghista, ministro dell’Interno e vicepremier viene interrotto da un interminabile, scrosciante applauso, che dura addirittura, secondo i presenti, quasi un minuto e mezzo, in omaggio al Senatùr.

Bossi trattiene a stento la commozione, ma gli occhi si inumidiscono. Gruppo di “famiglia” leghista nazionale in un interno, l’altra sera nell’aula dei gruppi parlamentari a Montecitorio, con i deputati e senatori, tutti con la spilletta del guerriero Alberto da Giussano sul bavero della giacca. E’ l’immagine di un Salvini così forte ormai da siglare, davanti a tutto il partito, affettuosamente la “pax” con “Umberto”. Ma è anche forse la fotografia che rende meglio l’idea di una Lega, vincente certamente, ma anche desiderosa di stringersi per una sera attorno alle radici identitarie per andare avanti nella navigazione procellosa dell’esecutivo con i Cinque Stelle.

Salvini come in un ritornello ripete che non corre nessun pericolo: «Il governo va avanti serenamente». Il capo leghista è determinato davvero a non staccare la spina. E se la spina sarà staccata, a farlo evidentemente dovranno essere i Cinque Stelle. Salvini deve rassicurare Luigi Di Maio, uscito dalla battaglia d’Abruzzo malconcio, deve rimodellare, secondo le intenzioni che gli vengono attribuite, il centrodestra, a sua immagine, e fare della Lega la forza egemone, perno del Paese. Ma soprattutto Salvini non può staccare la spina perché, come dicono sottovoce alcuni dei suoi, il rischio è quello di «un bel trappolone di governo semitecnico». E a quel punto si chiedono i leghisti: «Fi che farebbe?».

Come ha scritto Carlo Fusi su Il Dubbio, Salvini comunque si muova corre rischi. E apparire appiattito sugli alleati di governo a cominciare dalla Tav è cosa che potrebbe innanzitutto erodergli consensi a cominciare dalle prossime elezioni in Piemonte, dove la Lega vede il No- Tav come uno spettro. Ecco perché il ministro dell’Interno l’altra sera arrivando alla riunione dei parlamentari ha ribadito il suo sì all’opera seppur in maniera diplomatica parlando di referendum e ieri ha glissato: “Una cosa per volta, ora mi devo occupare dei pastori sardi”. Comunque sia, la linea che Salvini ha dettato ai suoi si potrebbe riassumere nell’ “Arte della guerra” di Sun Tzu. Agire senza agire nei confronti dell’alleato in crisi. Che tradotto in salsa leghista significa: ora “prima il territorio”. La Lega si lancia nella conquista della Sardegna dove si voterà il 24 febbraio. Ma la crisi pentastellata pone più di un dilemma, perché se Di Maio e soci non reggono l’urto con l’ala dura viene giù tutto. Un parlamentare leghista spiega a Il Dubbio: «Le follie dei Cinque Stelle? Questi sono problemi che Di Maio deve risolvere al suo interno, Di Maio e tutti quelli che lì ci stanno di più con la testa devono tenere a bada, evitare certe ca… te». Preso dall’entusiasmo, nel Transatlantico di Montecitorio, un deputato si avvicina a un dirigente leghista di rango ed esulta: «Oh, quelli li abbiamo asfaltati». Il maggiorente leghista, temendo i cronisti, non muove un muscolo della faccia e si attacca al telefonino. Ma uno come Maurizio Molinari, capogruppo alla Camera, e soprattutto piemontese, se il cronista gli fa la battuta che l’analisi costi- benefici a questo punto sarebbe meglio chiamarla “costi- malefici” non trattiene una larga risata. Per esorcizzare il problema. E il centrodestra che Berlusconi anche alla luce del risultato abruzzese rilancia? Molti leghisti quando gli parli di “Silvio” rispondono: «Ma lui è immortale! Il problema è che la nostra base non lo ama». E se fai l’ennesima domanda ai salviniani di ferro, sul futuro che pensano di avere con i Cinque Stelle, alcuni preferiscono parlare dei tempi di Bossi. Racconta uno di loro: «Era il 2006, in Via Bellerio con Giancarlo Giorgetti dovevamo prendere una dura posizione contro Romano Prodi su Malpensa. Aspettavamo Bossi che prima ci mandò a dire che non sarebbe venuto, poi però si presentò, mentre Giorgetti stava già parlando. Bossi aspira il sigaro e a sorpresa interrompe: ma che c…. te stai dicendo? Ma andate tutti aff… pirla! Giorgetti, l’unico autorizzato a cantarle a Bossi, s’incavola e ribatte: ma capo che c… o dici tu? E Bossi si mette a ridere: ho detto che hai ragione. Ti ho messo alla prova. E però andate lo stesso aff…».

Se non altro solo per questo gustoso aneddoto quello scrosciante applauso l’altra sera Salvini, con in prima fila Giorgetti, e i quarantenni d’assalto come il guru dei social Luca Morisi, il sottosegretario alle Riforme Guido Guidesi, i capigruppo Molinari e Massimiliano Romeo, all’ “Umberto” sentivano di doverlo.