Porto innanzitutto il saluto del Consiglio nazionale forense e dunque di tutto quel sistema ordinistico, che ricordo tutelato dagli articoli 2 e 18 della Costituzione e quindi da maneggiarsi con grande prudenza in ogni sede, impegnato a garantire, attraverso i Consigli territoriali, il corretto esercizio della professione e il corretto accesso alla Comunità della giurisdizione da parte dei cittadini, sempre con spirito volontaristico e spesso con il sacrificio da parte dei consiglieri dei propri impegni professionali e familiari, lungi dunque i Consigli dell’Ordine dal poter essere considerati luoghi di potere o di rendita di posizione.

Consigli dell’Ordine che, anzi, quali presìdi di operatività e di legalità sul territorio, sempre più andranno valorizzati come riferimento per gli utenti e come compartecipi a pieno titolo e responsabilità alla organizzazione della Comunità della giurisdizione: penso alla necessità di prevederne un ruolo non più limitato nelle conferenze permanenti e nei Consigli giudiziari, e soprattutto a un urgente chiarimento normativo sulla specificità della loro natura di ente pubblico non economico.

Ho parlato di Comunità della giurisdizione riferendomi con ciò ai loro principali attori: avvocati, magistrati, personale amministrativo, poiché va rammentato come la funzione giurisdizionale non possa esaurirsi in quanto dettato dal Titolo IV della Costituzione, ma debba altresì essere esempio di attuazione del dovere di solidarietà e del principio di uguaglianza, oltre che esercizio di una dinamica fondata sulla dialettica e sulla cultura del dubbio.

Dialettica e cultura del dubbio sono sempre, e in ogni sede, gli strumenti per un confronto democratico e per una crescita delle idee, che debbono nutrirsi le une delle altre. Parlare di corretta dialettica vuole dire anche affrontare il tema delle modalità di governo di una Società. Parlare di cultura del dubbio significa valorizzare tali modalità con la disponibilità a modificare le proprie opinioni, rinunciando a ogni forma di intransigenza.

Il metodo dialettico, fatto di tesi, antitesi e sintesi, peraltro, è lo strumento di lavoro quotidiano degli avvocati, che, nel rispetto delle regole processuali, devono proporre soluzioni, argomentarle e convincere il giudice a una sintesi loro favorevole. L’ uso del dubbio, poi, è connaturato alla costruzione di una tesi sostenibile, e di dubbi deve nutrirsi il giudicante per limitare al massimo la possibilità dell’errore.

Quanto sopra, tuttavia, non avrebbe significato alcuno se non si partisse dal presupposto per cui alla base di ogni dinamica di confronto vi debbano essere delle regole, ovvero vi debba essere il diritto, che altro non è che l’elemento fondante la Comunità della giurisdizione.

Diritto e corretta dialettica si riflettono in ogni ipotesi di contrapposizione: sociale, politica, tra categorie, tra corpi intermedi e Stato, tra culture, religioni. E la giurisdizione, a ben guardare, è la sede eletta delle contrapposizioni, ma secondo rito. Devesi perciò sempre, e in ogni comunità, a iniziare da quella del diritto, privilegiare il linguaggio leale, fatto di contenuti, princìpi, conoscenza, piuttosto che il linguaggio rancoroso, fatto di slogan assertivi e suggestivi, non rispettosi dell’altrui posizione e non inclini in alcuna maniera al ripensamento, anche solo parziale.

Ecco perché la Comunità della giurisdizione deve essere di esempio e avere come faro la dialettica piena e le sue corrette forme di attuazione: gli avvocati nei loro atti sono deontologicamente tenuti a rispettare le tesi di controparte, le impugnazioni devono essere strumento di critica esclusivamente tecnica delle sentenze, il giudice, a sua volta, deve rifuggire da soluzioni esasperatamente formalistiche, tese a “eliminare” più che definire un procedimento, e deve considerare la necessità di svolgere ragionamenti motivazionali ( compresi gli obiter dicta) che non deve rimanere di parte, connotato dalla disponibilità della materia, il processo amministrativo non può trovare preclusioni di censo, il processo tributario deve valorizzare sin dal primo grado la competenza specialistica del giudicante, il processo penale deve essere giusto, mantenere al centro l’imputato e rispettare il principio di non colpevolezza e della ragionevole durata.

Le riforme non possono sacrificare in alcuna misura quanto appena accennato: l’efficienza della giustizia non passa attraverso interventi codicistici a costo zero, ma attraverso investimenti economici, a cui ha fatto cenno anche il ministro, che devono essere di lunga prospettiva e durata, e perciò oggetto di un lavoro il più possibile comune tra tutte le forze politiche, con il necessario ascolto di chi ogni giorno opera nei tribunali.

Su tutti questi temi, e su altri, è peraltro sconfinino mai in spazi che possano apparire ( tra virgolette) “ideologici”. Ciò rischierebbe di far perdere autorevolezza e terzietà alla sentenza stessa. E la politica, attraverso le eventuali riforme, troppe volte in passato rivelatesi non necessarie, se non dannose, deve a sua volta assicurare alla giurisdizione il pieno svolgimento del confronto processuale, che non può trovare limitazioni in esigenze esclusivamente deflattive o efficientiste, ma deve gravitare attorno ad un baricentro ancorato alle garanzie e ai diritti non comprimibili, quale il diritto di tutti, ma soprattutto dei più deboli, alla difesa.

Il processo civile è processo che in atto un confronto intenso e continuo con il ministro della Giustizia e con il governo, ovviamente con momenti di intesa e con altri di inevitabili divergenze, per lo più note. Accolgo con piacere l’iniziativa di portare la riforma del patrocinio a spese dello Stato, tema molto caro all’avvocatura e richiamato all’articolo 24 della Costituzione, in un prossimo Consiglio dei ministri.

Concludo. Una Comunità della giurisdizione, fondata su basi dialettiche e sul rispetto dei ruoli, non rischia di perdere di vista gli equilibri costituzionali, con il pericolo, nel caso opposto di atteggiamenti non rispettosi dell’altrui funzione o inutilmente autoreferenziali, di incorrere in una grave responsabilità nei confronti della Comunità di tutti, cittadini e stranieri, il nostro Stato di diritto.

Ieri abbiamo celebrato la “Giornata degli avvocati in pericolo”. Sono migliaia, sono gli avvocati che ogni anno, nell’indifferenza generale, sono uccisi, imprigionati, privati della libertà propria e delle loro famiglie, a causa del loro impegno nell’affermare i diritti umani nel mondo, Tra loro ci sono gli avvocati che in Egitto stanno aiutando la famiglia Regeni nella ricerca della verità. A tutta questa straordinaria avvocatura va il ringraziamento del Consiglio nazionale forense e di tutti gli avvocati italiani. Auguro a tutti buon lavoro.