Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro del governo Prodi, fu il primo a parlare di quota 100. Oggi, Quota 100 è stata introdotta, ma dal governo avversario.

Lei, quindi, è d’accordo con i contenuti del decreto approvato dal Cdm del governo Conte? Non si può essere contro la flessibilità delle pensioni e contro le risorse di sostegno ai poveri. Sarebbe contraddittorio, perché le quote le ho inventate io con Prodi nel 2007 e il reddito di cittadinanza è l’estensione del reddito di inclusione introdotto nella precedente legislatura, che per la prima volta nella storia della nostra repubblica prevede un sostegno ai più deboli.

Non la stupisce che la “vostra” quota 100 sia diventata il cavallo di battaglia di Salvini? Salvini aveva già dichiarato, nella precedente legislatura, di appoggiare la mia proposta di legge. Purtroppo, allora il nostro governo non fu della stessa opinione e adottammo una misura meno costosa, cioè l’Ape sociale. Proprio su questo, a mio parere, deve partire la critica alla manovra da parte dei Pd.

Ovvero? La manovra contiene diverse contraddizioni. La prima è che esiste un evidente squilibrio tra risorse destinate a spesa corrente e quelle, modeste, per gli investimenti. Sappiamo poi che i vincoli scaturiti dalla trattativa con l’Europa possono significare una manovra correttiva, con richiesta di nuovi sacrifici.

E’ una questione di soldi, dunque? Anche. La Ragioneria dello Stato ha messo le mani avanti: per quota 100 si prevede un monitoraggio trimestrale per vedere se le richieste di pensionamento siano compatibili con gli stanziamenti. Se ci fosse un esubero di domande si faranno dei tagli corrispondenti: tagliamo l’indennità di disoccupazione? Lo stesso per le misure di “cittadinanza”: solo per le pensioni di cittadinanza la platea di pensionati con un assegno annuo da 3mila euro è di 2 milioni di persone. Per portarli a 9.360 euro, mancano 6mila euro. Moltiplicando, fa 12 miliardi. Impossibile, con le modeste risorse stanziate. Gli interessati sono solo 500 mila, come dice Di Maio? Fa sempre 3 miliardi di euro. Non è solo una questione di soldi, però, ma anche di qualità della normazione.

Si riferisce a quota 100? L’uscita anticipata dei lavoratori corregge l’impostazione rigorista e socialmente crudele della legge Fornero, ma questa non è una quota come noi l’avevamo pensata. Esiste una contraddizione: quota 100 prevede la necessità di avere 62 anni di età e un minimo di 38 anni di contributi, quindi se a quel traguardo arriva una persona di 63 anni, dovrà valicare quota 101. Questa modalità privilegia chi ha carriere stabili e molti contributi, che sono prevalentemente lavoratori del nord, maschi dipendenti di grandi imprese o pubblici. A questo traguardo non arrivano le categorie che andrebbero protette, come lavoratori stagionali, chi lavora nelle piccole aziende, donne e disoccupati. Paradossalmente, i più deboli non hanno alcun vantaggio.

E’ una misura classista, quindi? E’ una misura che, per come è strutturata, non salvaguarda le fasce deboli. Non a caso il Pd ha insistito perché non si commettesse l’errore di cancellare l’Ape sociale, che viene infatti prorogato, ma solo per un anno. Andrebbe, invece, resa strutturale, perchè tutela chi svolge lavori più faticosi, dai macchinisti delle ferrovie agli infermieri notturni, i disoccupati e le donne, alle quali vengono riconosciuti fino a due anni di contribuzione, un anno per ogni figlio. Con l’Ape sociale può andare in pensione il lavoratore che svolge una professione gravosa che ha 63 anni di età e 36 anni di contributi; chi è disoccupato da almeno 3 mesi, invece, va in pensione con 63 anni e 30 anni di contributi.

Insomma, il Pd come dovrebbe comportarsi quando il decreto arriverà in aula per la conversione? Dovrebbe fare una battaglia non per ostacolare quota 100, ma per rendere strutturale e migliorare l’ape sociale. Io propongo due emendamenti: includere tra le categorie di lavoro gravoso che accedono all’Ape sociale anche gli operai dell’edilizia e gli stagionali; consentire ai disoccupati di lungo periodo di poter andare in pensione con l’Ape anche se non hanno utilizzato gli ammortizzatori. Questo perchè, delle 70mila domande arrivate l’anno scorso, circa 58mila erano di disoccupati. Consentire loro l’accesso alla pensione sarebbe un’azione di equità sociale, che non va dimenticata. Aggiungo che nel decreto non trovo traccia della nona salvaguardia, che metterebbe in salvo gli ultimi 6mila esodati che non hanno beneficiato delle precedenti otto salvaguardie.

Tornando alla domanda iniziale, il governo sta facendo politiche sociali compatibili con le battaglie storiche del Pd? Penso questo: che dovevamo essere noi, in campagna elettorale, a sostenere la necessità di una flessibilità pensionistica e del miglioramento del reddito di inclusione. Il nostro errore è stato consegnare le nostre bandiere ai partiti che ora governano, senza evidenziare a sufficienza le loro contraddizioni.