Certe frasi sono fuori luogo. Non nel senso che sono sbagliate: “Ti aspetto fuori” è espressione che si immagina di sentire in un altro tipo di aula. A scuola, non in tribunale. Ieri invece l’hanno detto a un giudice.

Al magistrato che ha letto la sentenza sulla strage del bus. Ce l’avevano con lui perché aveva assolto l’ad di Autostrade Giovanni Castellucci. Nonostante quel giudice avesse appena condannato altri dirigenti della stessa società.

La rabbia dei parenti non va sfiorata neppure con un “però”. È sacrosanta.

Eppure dietro quelle invettive è come se ci fosse qualcos’altro, oltre alla rabbia. Altrimenti non si spiega. Non si spiega perché, al termine di un processo in cui i condannati ci sono e visto che qualcuno dunque “pagherà” proprio come chiede il vicepremier Salvini, nei familiari delle 40 vittime prevalga quel tipo di sentimento. È come se dietro ci fosse una coazione a ripetere.

Quella che spinge a chiedere il colpevole con la C maiuscola. Il capro espiatorio. E in effetti nella vicenda della sciagura del 2013 Castellucci potrebbe incarnare perfettamente il ruolo. Era stato rinviato a giudizio per omicidio colposo plurimo e disastro colposo a causa dei guard rail del viadotto, sbriciolati nell’impatto con il bus. Fradici, secondo l’accusa. Ma Castellucci è anche il volto con cui Autostrade si è presentata agli italiani dopo il crollo del ponte Morandi. Se chiamati a individuare un responsabile della carneficina di Ferragosto, tanti sceglierebbero lui. Quindi è perfetto per rappresentare il male in qualsiasi altro posto. Anche nell’aula del tribunale di Avellino. Cosa importa che secondo il giudice non ci fossero prove di una sua personale responsabilità? E soprattutto: come accettare che possano esserci anche sentenze di assoluzione? Perché - è questo il punto - all’idea che la giustizia debba accertare i fatti e non consumare vendette non crede quasi più nessuno. È come se ieri davanti a quel giudice monocratico fossero risuonate le tante grida di sdegno scaricate addosso in questi anni a tanti altri magistrati che avevano usato la parola “assolve”. La giustizia dovrebbe essere al suo massimo grado quando arriva a riconoscere innocente un imputato. Dopo averlo sottoposto a indagine, aver ipotizzato reati a suo carico, aver assunto prove in dibattimento e averle valutate. Perché? Semplice: se un pubblico potere, il Tribunale, quindi lo Stato, prima accusa e poi riconosce che l’accusa è infondata, lo fa in nome della propria massima autorevolezza. Uno Stato, e un giudice così, dovrebbero rassicurarci, perché hanno il coraggio di assolvere, appunto. A furia di coltivare l’attesa per condanne vendicative, un giorno finiremo per sentirci insicuri davvero. Non è ai familiari delle vittime di Pozzuoli che lo si deve ricordare. Ma a noi tutti. Che abbiamo trasformato la giustizia in qualcos’altro.