«Ripartiamo dal sogno e dall’utopia, e dalla possibilità di sognare insieme. E’ questa la risposta che dobbiamo dare ai fatti come quello che ha visto coinvolti il vicesindaco leghista di Trieste, Polidori, e il signore rumeno che vive per strada a cui ha buttato le coperte vantandosene”. Peppe Dell’Acqua è uno dei protagonisti della riforma basagliana della psichiatria, una riforma che continua a dispetto del clima politico e culturale che si vive oggi nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia e più in generale in Italia. Più di quarant’anni fa è arrivato a Trieste ed è ancora in prima fila a difendere quella che, più che mai di questi tempi, potremmo definire una rivoluzione: le persone con problemi di salute mentale fuori dai manicomi, le case autogestite, una idea diversa della cura e del welfare. Forse anche per questo Dell’Acqua è spiazzante nel leggere quello che è accaduto e che ha destato la riprovazione di tutto il Paese. «E’ gravissimo - dice - ma non è Trieste, non è la Trieste dove la riforma basagliana vive ancora». «Dobbiamo - spiega - cambiare il modo che abbiamo di raccontare la realtà, cambiare la narrazione fondata sul rancore e su “tutto va male”. Lo dico soprattutto a chi di mestiere fa il giornalista» . Un lavoro che lui porta avanti anche con la collana 180. Archivio critico della salute mentale per la casa editrice Ab di Merano.

Insomma, secondo lei come è possibile che proprio a Trieste, la città di Basaglia e degli ultimi, un assessore si vanti di aver buttato le coperte di un homeless?

Il governo di questa città ha poco a che fare con quella che lei, e anche io, chiamiamo la rivoluzione di Franco Basaglia. Credo che 40 anni di riforma della psichiatria, per quanto diffusa, non possano pretendere di cancellare il fascismo presente nella nostra società. Ma mettere insieme le due cose non va bene. Trieste non è il suo assessore, non è chi la governa.

Come descriverebbe allora Trieste?

Trieste è il luogo dove i cittadini hanno reso possibile la riforma della psichiatria. Certo, allora, ci furono delle resistenze, ma del resto la chiusura dei manicomi con tutto quello che ne derivava fu un bel colpo rispetto alla cultura di allora. Eppure la città fu capace di accogliere quell'esperienza, di farla penetrare nella società. Basaglia, quando raccontava di Marco Cavallo - la statua di cartapesta, portata in processione dai “matti” in giro per la città - diceva: “In fondo è stata una violenza”. Ma una buona parte dei politici di allora, come il democristiano Michele Zanetti, ci credettero.

Ma ora che cosa è cambiato?

Da un certo momento in avanti si è iniziata a costruire una cultura del risentimento, del rancore anche a partire da situazioni che non sono gravissime. Si è costruita una narrazione in cui tutto viene descritto come un fallimento, come senza speranza. Quando intervistano le persone per strada, resto stupito per come prevalga l’egoismo, un sentimento di sé che non prevede l’altro. Nascono così il populismo, l’odio.

Colpa della povertà?

Certo che questo problema esiste. Ma non basta a giustificare il risentimento che la maggior parte delle persone ha introiettato. Lo stesso giornalismo si fonda sul dare cattive notizie. Sembra che altrimenti non si possa fare informazione se non dicendo che tutto va male. Quando si parla dell’Italia e degli italiani, per esempio, risultano i peggiori in tutto: chissà poi da dove le prendono quelle classifiche… Ecco, io penso che dobbiamo ribellarci a questa narrazione, la dobbiamo ribaltare.

Partiamo dal fatto di cronaca in questione: lei come lo racconterebbe?

La racconterei dicendo che a Trieste ci sono pochissimi homeless e che quelli che ci sono possono ancora godere di un welfare che neanche questa amministrazione smantella. Di recente abbiamo stabilito un rapporto con il dipartimento di salute mentale di Los Angeles, sono venuti da noi a studiare il nostro sistema. Non potevano credere che qui le persone con problemi di salute mentale non fossero segregate e che non ci fossero homeless. Non so cosa potranno fare in una grande città come la loro, ma Trieste è ancora considerata un esempio.

C’è poi stata anche una risposta immediata della città che, in una gara di solidarietà, ha portato nuove coperte a chi dorme all’aperto.

Sì, non so se siano cattolici o laici, ma sono tanti giovani che hanno risposto all’ossessione, chiamiamola così, per la pulizia di Polidori. Senza contare che un assessore, se c’è un problema lo risolve, invece di fare come un bambino che, dopo aver mangiato il panino, pensa di pulire il tavolo, buttando le briciole per terra…

Cambiare la narrazione, ribaltarla. Come dobbiamo fare?

Dobbiamo costruire reti mettendo in relazione le varie esperienze, rilanciando utopia e sogno, un sogno da condividere. Noi abbiamo deciso di rilanciare il Forum salute mentale, un sito in cui denunciare le cattive pratiche, ma soprattutto - come dicevo prima - raccontare le esperienze che invece funzionano e sono tante. Insieme a Massimo Cirri abbiamo messo in scena uno spettacolo, ( Tra parentesi) la vera storia di una liberazione per raccontare il fermento che portò alla legge 180. Un altro modo per far conoscere una storia e per resistere.

Sono passati tanti anni da quando arrivò a Trieste?

Era il 1971, avevo sentito parlare di Basaglia, ma non avevo ben chiaro che cosa stesse facendo. Ma allora bastava sapere che si stava rivoluzionando l’idea di salute mentale e di cura, e dal Sud si partiva in tre con una 500. Bastava ciò l’idea di sogno e di utopia, proprio quelle che dobbiamo far rivivere oggi.