Claudio Martelli, all'epoca, nei tardi anni 80 del secolo scorso, ministro della Giustizia e delfino di Bettino Craxi, lo chiamava sempre e solo “Leoluca Orlando Cascio”, per segnalare presunti rapporti di suo padre, l'avvocato Salvatore Orlando Cascio, con le cosche siciliane. Per Martelli il democristiano Leoluca, sindaco di Palermo dal 1985 al 1990, gran fustigatore di politici in particolare del suo stesso partito oppure degli alleati socialisti, era la vera “bestia nera”, un moralista finto che adoperava la retorica antimafia per farsi pubblicità, e allo stesso modo sembrava pensarla l'allora capo dello Stato, Francesco Cossiga.

Ragazzo di buona famiglia, con una rarissima malformazione fisica, la sindrome di Katagener, per cui ha il cuore a destra e il fegato a sinistra, quattro casi in tutto il mondo, Leoluca, avvocato come il padre, si era formato all'estero, in Germania e nel Regno unito. Poi, al ritorno, nei primissimi anni 80 aveva scelto la politica nella Dc, diventando subito consigliere del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Mattarella, anche lui figlio degenere di un politico sospetto di collusioni con Cosa nostra nonché fratello dell'attuale capo dello Stato, era la Dc dal volto pulito, antagonista diretto di quell'altro pezzo di scudocrociato che nell'isola di pulito aveva ben poco: quello del sindaco democristiano e picciotto corleonese Vito Ciancimino, dell'onnipotente proconsole Salvo Lima e quindi anche di Giulio Andreotti. Quando Mattarella fu ammazzato da Cosa nostra, il rampollo democristiano si ingraziò il partito accusando di fronte ai giudici gli interi vertici dello scudocrociato siculo di essere responsabili dell'omicidio. Eletto consigliere comunale nel 1985 si ritrovò sindaco pochi mesi dopo e prese di mira subito gli andreottiani all'interno del partito e i craxiani all'esterno. La maggioranza che supportava la sua giunta era spuria e singolare, molto diversa, nonostante la presenza della Dc, da quella che reggeva il Paese negli anni del cosiddetto Caf, il triumvirato Craxi- Andreotti- Forlani. Tra i cinque partiti che sostenevano il sindaco c'erano i Verdi ma non i socialisti, né i repubblicani. Poi, nell' 89, arrivò pure il Pci, per la prima volta in una maggioranza a Palermo. Per il divo Giulio fu troppo. Orlando fu costretto alle dimissioni nel gennaio 1990.

Non che nei percorsi del sindaco legato da quel momento all'immagine, e anche un po' alla mitologia, della “primavera di Palermo” fosse tutto rose e fiori. Come sindaco non mancavano le critiche ma soprattutto Orlando fece un clamoroso passo falso accusando Giovanni Falcone di complicità con i politici che proteggevano Cosa nostra.

Una brutta storia, iniziata quando nel luglio 1989 Giuseppe Pellegritti, mafioso, si pentì promettendo rivelazioni di portata nucleare sugli omicidi Mattarella e La Torre, esponente del Pci, ammazzato come Mattarella, e per motivi identici. L'uomo d'onore accusava senza mezzi termini Lima di aver ordinato l'uccisione di Mattarella. Falcone approfondì, indagò, arrivò alla conclusione che le rivelazioni di Pellegritti non avevano elementi a sostegno: lo accusò di falsa testimonianza e calunnia continuata.

Orlando, con tutto il movimento che aveva nel frattempo fondato, La Rete, partì lancia in resta. Nel corso di uno di quei processi mediatici di piazza che Michele Santoro animava allora nella sua trasmissione Samarcanda accusò Falcone di tenere “chiusi nei cassetti” documenti esplosivi lasciati dal giudice Rocco Chinnici, il fondatore del pool antimafia anche lui assassinato dai killer di Totò Riina. Non si fermò lì, Orlando. Per due anni martellò con le sue accuse, il caso diventò una tempesta nazionale. Intervenne il presidente Cossiga e il Csm convocò e “interrogò” a lungo il magistrato che più di ogni altro aveva inflitto un colpo quasi mortale a Cosa nostra. E' possibile, forse probabile, che quell'isolamento abbia se non altro aiutato don Totò a decidere di farla finita con Falcone a Capaci.

Ironia della storia, proprio l'uccisione di Falcone riportò Orlando sulla poltrona di sindaco per la seconda volta. A Palermo, in quei giorni, successe il finimondo. Istrionico, Leoluca partecipò a una quasi occupazione del comune e si sedette simbolicamente sulla poltrona dalla quale lo avevano sloggiato. Nel novembre del 1993, dopo essere stato prima deputato regionale e poi nazionale eletto con le liste della sua Rete, dopo essere stato tra i pochissimi politici a opporsi alla cancellazione del proporzionale nello storico referendum dell'aprile 1993, tornò primo cittadino nelle prime elezioni dirette del sindaco.

Di cariche Orlando non se ne è mai fatte mancare. Da sindaco si fece eleggere nel 1994 europarlamentare. Nel 2000, già al secondo mandato consecutivo, rassegnò le dimissioni per candidarsi alla presidenza della Regione. Fu sconfitto proprio da uno di quegli ex democristiani della vecchia scuola, Totò Cuffaro, contro i quali si era scagliato nei già lontani anni 80.

Nel frattempo La Rete si era sciolta. Il sindaco di Palermo per eccellenza era finito nella Margherita, tornando alle origini, alla sinistra Dc, salvo venir messo alla porta da Rutelli dopo aver sostenuto nel 2006 la candidatura di Rita Borsellino alla presidenza della Regione in contrasto con il candidato sostenuto dalla Margherita Latteri.

L'ingresso nell'Italia dei Valori di Di Pietro, a quel punto, era un passaggio quasi obbligato. Diventò subito “portavoce” di quel partito nel suo effimero momento di successo sfruttando però la postazione per candidarsi di nuovo e con successo, nel 2012, a sindaco di Palermo. Attualmente Leoluca è al quinto mandato come sindaco di Palermo e rappresenta, a modo suo, un modello. Più volte sparito dalla grande scena nazionale, è sempre risorto, come un'araba fenice della politica, rifugiandosi nella sua città, dove esercita da oltre trent'anni un ruolo centralissimo e incontrastato. E la sua parabola insieme locale e nazionale non pare affatto vicina a declinare