Le regole non si cambiano in corsa. Si chiude così, l’ennesima quasi polemica interna al Partito democratico, in vista delle primarie del 3 marzo, che oggi contano sette contendenti, dopo la candidatura della giovane calabrese Maria Saladino.

Nei giorni scorsi si erano rincorse voci di un accordo tra gentiluomini tra i candidati: chiunque vinca, anche senza il 51%, sarà segretario. Una sorta di incoronazione per convenzione, senza imbarcarsi in una complicata riforma statutaria che oggi sarebbe impensabile proporre. L’obiettivo conclamato: quello di evitare - in caso di risultato non netto - fossa dei leoni dell’Assemblea del partito ( a cui spetta la decisione sul segretario, nel caso in cui nessuno dei candidati passati per le primarie raggiunga la maggioranza assoluta), dove peserebbero le percentuali e le correnti potrebbero accordarsi per “sovvertire” l’esito dei gazebo.

Ieri, però, l’ipotesi è stata accantonata del tutto, tra le polemiche. Di più, nessuno si è preso la paternità della proposta, e per trovarle una “madrina” si è dovuti risalire al tweet di qualche settimana fa, della ex ministra Valeria Fedeli ( oggi schierata con Marco Minniti).

I primi niet sono arrivati dai sostenitori proprio di Minniti; «Le regole le stabilisce solo lo statuto. E ora è tardi», era il ritornello, ripetuto anche dal “renziano atipico” Roberto Giachetti, reduce da un lungo sciopero della fame per chiedere il rispetto dello Statuto e la fissazione della data delle primarie: «Non scherziamo. Lo statuto si cambia in Assemblea, non per accordi tra candidati», ha tuonato, aggiungendo, rivolto ai candidati: «Potevate pensarci prima. Così come, se volevate anticipare il congresso, potevate deciderlo a luglio per farlo a ottobre o anticipare le dimissioni. Le regole si cambiano legalmente non violandole».

Anche il fronte zingarettiano ( che si è arricchito dell’endorsement del grande vecchio Luigi Berlinguer) è compatto nel rifiutare l’idea di un patto “anti- Assemblea”: Nicola Zingaretti è in candidato che più si sta spendendo per incitare i sostenitori ad andare ai gazebo, arrivando addirittura a spingersi a dire che tra il suo arrivare primo e un segretario che non sia lui al 51%, preferisce quest’ultima soluzione.

Sulla stessa linea anche Maurizio Martina ( «Io dico solo una cosa: fuori le idee, prima delle percentuali di voto» ) e Francesco Boccia ( «Se ne parla, ma ci sono regole da rispettare e adesso non si può fare» ). Intanto, proprio il terzo big candidato Martina, ha accolto nella sua squadra l’ormai ex candidato, Matteo Richetti.

La scelta ha fatto gridare al complotto la sinistra Pd, che ha letto nell’avvicinamento dei due ex renziani una mossa del convitato di pietra, Matteo Renzi ( «La loro storia comune va così a riunirsi in una proposta politica in piena continuità con renzismo del passato», ha dichiarato Monica Cirinnà). Accusa di tatticismo rigettata dal diretto interessato: «Nessuna eterodirezione, - si è difeso Richetti, Matteo è una persona troppo intelligente per pensare di giocare una partita in questi termini. Io ho avuto un lungo confronto molto trasparente con Maurizio Martina, a me interessano le idee e il cambiamento del Pd». E a difenderlo è intervenuto anche Martina: «È la dimostrazione che ci si può unire anziché dividere. Ringrazio di cuore Matteo per la generosità, la fiducia e la passione. Gli ho chiesto di lavorare fianco a fianco in un ticket. Le nostre strade si uniscono dando sempre più forza all’idea di una candidatura di squadra».

Il tiket Martina- Richetti poteva in effetti adombrare ipotesi di ritorno al renzismo, ma ci ha pensato lo stesso ex leader a sparigliare le carte: «Marco Minniti è un perfetto candidato contro Matteo Salvini. Preferisco parlare della Lega anziché del congresso del Pd», ha detto Matteo Renzi. E le geometrie si infittiscono ulteriormente.