Il gioco ormai sembra collaudato: Matteo Salvini dice qualcosa che suona come un affronto alla storia del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio si mostra irritato e una parte della base parlamentare grillina manifesta la propria insofferenza nei confronti dell'alleanza col Carroccio. Quasi sempre finisce con una riunione lampo e un comunicato congiunto che riappiana miracolosamente ogni attrito. E quasi sempre è la Lega ad avere la meglio. È già successo col condono fiscale, potrebbe accadere con gli inceneritori e ci sono tutti gli ingredienti perché il copione resti lo stesso adesso, sul decreto sicurezza, a pochi giorni dal voto definitivo alla Camera. «Il dl Sicurezza serve al Paese e passerà entro il 3 dicembre o salta tutto e mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia tornare indietro», è il monito lanciato agli alleati dal ministro dell'Interno, commentando il nervosismo di alcuni deputati grillini - 19 prima che qualcuno smarcasse - che vorrebbero emendare il provvedimento a Montecitorio e hanno avuto il coraggio di scriverlo nero su bianco su una lettera indirizzata al capogruppo.

Il decreto «va avanti anche perché se lo apriamo e lo modifichiamo lo facciamo decadere. Quel decreto va votato, altrimenti non possiamo chiedere di rispettare il contratto di governo», annuncia invece su Radiouno il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. «Come capo politico del Movimento devo assicurare la lealtà a questo governo: se dico una cosa all'inizio, quella cosa si fa fino alla fine», spiega ancora Di Maio, mettendo a tacere i malumori pentastellati. Il capo politico si appella al buonsenso di molti “pentiti” che avevano sottoscritto quella richiesta di modifica del testo ma «si stanno sfilando perché non vogliono mettere in difficolta il governo», dice il vice premier M5S. «Mi stanno scrivendo in molti e stasera farò una ricognizione di chi ancora sostiene quella lettera, con cui, a quanto ho capito, si vuole fare soprattutto un'azione di testimonianza». Cosa intenda per ricognizione Di Maio non è dato saperlo, ma qualora il dissenso rimanesse irriducibile, i ribelli verrebbero con ogni probabilità deferiti al collegio dei probiviri, già chiamato agli straordinari per valutare la posizione dei cinque senatori eretici anti salviniani. Il rischio per il leader pentastellato però è che la fronda non si limiti ai firmatari della lettera. Altri deputati di peso sono usciti allo scoperto pur senza presentare emendamenti alla legge della Lega, come Giuseppe Brescia, fichiano, e nientepopodiménopresidente della commissione Affari costituzionali e relatore del provvedimento. «Rimangono forti perplessità su diversi punti del testo, come il ridimensionamento dello Sprar e la mancata tutela a chi potrebbe subire trattamenti disumani e degradanti. Sono punti a cui alcuni emendamenti presentati dai colleghi M5s danno risposta», dice senza paura Brescia. «Personalmente ho ritenuto opportuno non presentare emendamenti migliorativi come relatore perché è noto che non governiamo da soli». Ma la bocciatura sul decreto sicurezza è sonora: «L'impianto proposto dal decreto regge se aumentano i rimpatri e se il numero di sbarchi rimane invariato, in caso contrario questo sistema e destinato a creare più irregolari, più marginalità e più insicurezza», chiosa il deputato fuori linea. E invece di rientrare, come sperato da Di Maio, i deputati ribelli firmatari della missiva sono convinti che la sfida ai vertici abbia sortito gli effetti desiderati e si dicono soddisfatti dei cinque emendamenti depositati in Commissione «per conto del Movimento tutto, raccogliendo anche le richieste che insieme ad altri, come e noto, ho voluto esprimere», dice a nome dei dissidenti la napoletana Gilda Sportiello.

Oltre alle modifiche richieste dai ribelli, però, sul decreto pendono 600 emendamenti che potrebbero farlo naufragare. Un rischio che Di Maio non vuole prendere neanche in considerazione in una fase in cui un incidente del genere corrisponderebbe alla fine dell'esperienza di governo. «Per quanto mi riguarda la mia parola e una: se io e tutti ministri M5S abbiamo votato quel decreto in Consiglio dei ministri, quel decreto si deve votare fino alla fine, modificarlo alla Camera significa non convertirlo. Io ho una parola sola e sono una persona corretta», afferma Di Maio, richiamando almeno i suoi alla disciplina e alla fiducia cieca nei confronti delle scelte dei vertici. E se non fosse sufficiente, Lega e 5 Stelle sono pronte a usare l'arma già sperimentata al Senato: il voto di fiducia. Salvini incassa e ringrazia.