Va benissimo anche la dialettica dura tra il nostro governo e le controparti europee, ma è al contempo necessario un supplemento di responsabilità per consentire all’Italia di superare un momento oggettivamente difficile. Ci sono tutte le condizioni per aggiustare la manovra di bilancio in modo tale da farla condividere alla Commissione senza tradire le legittime ( anche se per me non condivisibili) aspirazioni dell’esecutivo e dell’elettorato dei partiti che lo sostengono.
Prima di analizzare le modificazioni possibili agli interventi di finanza pubblica, è importante chiarire perché l’Italia dovrebbe apportarle. Non si tratta, certo, della paventata sanzione di qualche miliardo di euro se non si aggiusta la manovra. Quanto piuttosto della partecipazione dell’Italia alla definizione di importantissime questioni europee che vanno dal completamento dell’Unione bancaria, alla costruzione di una posizione comune rispetto ai temi del neo- protezionismo planetario, passando attraverso la revisione del bilancio pluriennale 2020- 2027, tutti temi che impattano sulle nostre vite, prima che sulla macroeconomia o la geopolitica). Una cosa è contribuire a questi dossier con piena credibilità, da soci che vogliono proseguire un cammino comune, ben altra sarebbe partire da posizioni di aperto conflitto. Bisogna farsene una ragione: la credibilità si misura sui comportamenti e non sulle dichiarazioni. Cioè, se i nostri ministri sostengono di infischiarsene delle determinazioni della Commissione, è perfettamente inutile proclamare che l’Europa è il nostro destino e giammai l’abbandoneremo. Se si proseguisse in questo atteggiamento, l’uscita dall’Unione europea sarebbe nei fatti, prima che nel diritto. Vi rinunceremmo, insomma. Ma per cosa? Per niente, credo.
Infatti, è sufficiente considerare che molti dei provvedimenti ipotizzati nel documento programmatico ( il cui merito ho discusso su questo giornale il 18 ottobre) con tutta la buona volontà del mondo non potranno essere attivati dal primo gennaio. Quindi, la prima cosa da fare è tradurre in numeri questa circostanza, cioè cifrare correttamente l’impatto dei provvedimenti considerando realisticamente per quanti mesi del 2019 saranno attivi. Secondo l’ultimo rapporto di Ref ricerche, senza alcuna modificazione all’impianto attuale, nel 2019 si produrrebbe comunque un deficit più esiguo del proclamato 2,4% solo per questioni relative ai tempi di vigenza effettiva della manovra. Ma allora perché andare alla guerra con l’Europa su un numero che non ha ragion d’essere? Rifaccio i conti rozzamente. Immaginiamo che il reddito di cittadinanza sia introdotto non dall’inizio del 2019 bensì dal primo luglio. E ipotizziamo una riduzione delle risorse stanziate per famiglia pari al 10% ( diciamo da 460 euro mensili a 414 euro mensili per gli aventi diritto). Per la prima parte dell’anno resterebbe l’erogazione del Rei. Il risparmio consisterebbe in circa 3,8 miliardi di euro, pari a 2 decimi in rapporto al Pil, il quale ultimo sarebbe meno dinamico di circa 3 decimi di punto ( quindi all’ 1,2% nel 2019 rispetto all’attuale previsione troppo ottimistica di + 1,5%).
Se un’analoga riduzione di due decimi di Pil si ottenesse dalla rimodulazione dei nuovi requisiti di pensionamento, si otterrebbe complessivamente un deficit per il prossimo anno attorno al 2,1% ( non al 2 perché lo stesso Pil, come detto, sarebbe più basso).
La sostanza e la dimensione quantitativa della manovra sarebbero praticamente intatte, solo più coerenti con la collocazione temporale dei provvedimenti. Inoltre, queste semplici correzioni aggiusterebbero anche l’altro parametro critico, il saldo strutturale ( il deficit corretto per il ciclo economico), la cui variazione le nostre controparti internazionali stigmatizzano come il vulnus più grave ai patti sottoscritti. Un Pil meno dinamico implicherebbe un output gap più elevato che correggerebbe un rapporto deficit/ Pil nominale già più basso ( appunto al 2,1%). Si otterrebbe un saldo strutturale attorno all’ 1,2- 1,3%. Certo, ancora lontano dagli obiettivi promessi, ma comunque largamente più accettabile dell’attuale 1,7%.
Non nego che tutto questo ragionamento trascuri un punto più tragico che drammatico: il difficilissimo assetto dei conti per il 2020, come testimoniato dalla posizione delle clausole Iva a salvaguardia di un già elevato deficit/ Pil al 2,1% per quell’anno. Tuttavia, l’approccio suggerito potrebbe fornire qualche sollievo anche all’aritmetica del bilancio 2020, tanto più che ulteriori limature sarebbero, comunque, disponibili, con un pizzico di buona volontà.
È importante, credo, pesare bene costi e benefici delle decisioni che vengono prese oggi, perché i loro effetti si produrranno anche per molti anni nel futuro.
Manovra, consigli non richiesti su come onorare promesse elettorali e patti europei
Va benissimo anche la dialettica dura tra il nostro governo e le controparti europee, ma è al contempo necessario un supplemento di responsabilità per consentire all’Italia di superare un momento oggettivamente difficile. Ci sono tutte le condizioni per aggiustare la manovra di bilancio in modo tale da farla condividere alla Commissione senza tradire le legittime ( anche se per me non condivisibili) aspirazioni dell’esecutivo e dell’elettorato dei partiti che lo sostengono.
Prima di analizzare le modificazioni possibili agli interventi di finanza pubblica, è importante chiarire perché l’Italia dovrebbe apportarle. Non si tratta, certo, della paventata sanzione di qualche miliardo di euro se non si aggiusta la manovra. Quanto piuttosto della partecipazione dell’Italia alla definizione di importantissime questioni europee che vanno dal completamento dell’Unione bancaria, alla costruzione di una posizione comune rispetto ai temi del neo- protezionismo planetario, passando attraverso la revisione del bilancio pluriennale 2020- 2027, tutti temi che impattano sulle nostre vite, prima che sulla macroeconomia o la geopolitica). Una cosa è contribuire a questi dossier con piena credibilità, da soci che vogliono proseguire un cammino comune, ben altra sarebbe partire da posizioni di aperto conflitto. Bisogna farsene una ragione: la credibilità si misura sui comportamenti e non sulle dichiarazioni. Cioè, se i nostri ministri sostengono di infischiarsene delle determinazioni della Commissione, è perfettamente inutile proclamare che l’Europa è il nostro destino e giammai l’abbandoneremo. Se si proseguisse in questo atteggiamento, l’uscita dall’Unione europea sarebbe nei fatti, prima che nel diritto. Vi rinunceremmo, insomma. Ma per cosa? Per niente, credo.
Infatti, è sufficiente considerare che molti dei provvedimenti ipotizzati nel documento programmatico ( il cui merito ho discusso su questo giornale il 18 ottobre) con tutta la buona volontà del mondo non potranno essere attivati dal primo gennaio. Quindi, la prima cosa da fare è tradurre in numeri questa circostanza, cioè cifrare correttamente l’impatto dei provvedimenti considerando realisticamente per quanti mesi del 2019 saranno attivi. Secondo l’ultimo rapporto di Ref ricerche, senza alcuna modificazione all’impianto attuale, nel 2019 si produrrebbe comunque un deficit più esiguo del proclamato 2,4% solo per questioni relative ai tempi di vigenza effettiva della manovra. Ma allora perché andare alla guerra con l’Europa su un numero che non ha ragion d’essere? Rifaccio i conti rozzamente. Immaginiamo che il reddito di cittadinanza sia introdotto non dall’inizio del 2019 bensì dal primo luglio. E ipotizziamo una riduzione delle risorse stanziate per famiglia pari al 10% ( diciamo da 460 euro mensili a 414 euro mensili per gli aventi diritto). Per la prima parte dell’anno resterebbe l’erogazione del Rei. Il risparmio consisterebbe in circa 3,8 miliardi di euro, pari a 2 decimi in rapporto al Pil, il quale ultimo sarebbe meno dinamico di circa 3 decimi di punto ( quindi all’ 1,2% nel 2019 rispetto all’attuale previsione troppo ottimistica di + 1,5%).
Se un’analoga riduzione di due decimi di Pil si ottenesse dalla rimodulazione dei nuovi requisiti di pensionamento, si otterrebbe complessivamente un deficit per il prossimo anno attorno al 2,1% ( non al 2 perché lo stesso Pil, come detto, sarebbe più basso).
La sostanza e la dimensione quantitativa della manovra sarebbero praticamente intatte, solo più coerenti con la collocazione temporale dei provvedimenti. Inoltre, queste semplici correzioni aggiusterebbero anche l’altro parametro critico, il saldo strutturale ( il deficit corretto per il ciclo economico), la cui variazione le nostre controparti internazionali stigmatizzano come il vulnus più grave ai patti sottoscritti. Un Pil meno dinamico implicherebbe un output gap più elevato che correggerebbe un rapporto deficit/ Pil nominale già più basso ( appunto al 2,1%). Si otterrebbe un saldo strutturale attorno all’ 1,2- 1,3%. Certo, ancora lontano dagli obiettivi promessi, ma comunque largamente più accettabile dell’attuale 1,7%.
Non nego che tutto questo ragionamento trascuri un punto più tragico che drammatico: il difficilissimo assetto dei conti per il 2020, come testimoniato dalla posizione delle clausole Iva a salvaguardia di un già elevato deficit/ Pil al 2,1% per quell’anno. Tuttavia, l’approccio suggerito potrebbe fornire qualche sollievo anche all’aritmetica del bilancio 2020, tanto più che ulteriori limature sarebbero, comunque, disponibili, con un pizzico di buona volontà.
È importante, credo, pesare bene costi e benefici delle decisioni che vengono prese oggi, perché i loro effetti si produrranno anche per molti anni nel futuro.
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