Tre cose. Tutte e tre forti. Alfonso Bonadefe parte ieri mattina da un post su facebook e annuncia una nuova tappa del suo “viaggio nella giustizia”, poco dopo torna on line da Piazzale Clodio, sede degli uffici giudiziari della Capitale, e nel suo report fissa un primo tassello: «Ho visitato il Tribunale di Roma. Un sede sovraccarica, che sintetizza lo Stato della nostra giustizia e il nostro obiettivo: dare una risposta tempestiva nonostante il peso enorme che grava sugli uffici». Come a dire: se c’è una «attesa di giustizia» si risponde «con gli aumenti di personale e di magistrati» e non con la “crasi” delle procedure. Bel segnale. Il secondo: «Vi devo dire che ho incontrato persone di una straordinaria professionalità. E ho capito che intanto il sistema riesce a portare avanti quel carico enorme perché ci sono avvocati, personale amministrativo e magistrati che riescono a creare pratiche virtuose per dare giustizia ai cittadini». È un fantastica picconata alla leggenda nera del travet sfaticato e incapace, oltre che un bel riconoscimento dell’avvocato quale garante di un servizio dello Stato. Due notevoli colpi. Il terzo: «Devo dirvi, è giusto che ve lo dica, che ho incontrato Ilaria Cucchi. Era lì per un’udienza del processo sulla morte di Stefano. Non dico nulla, sono il ministro della Giustizia e l’autonomia dei magistrati va rispettata. Ma è giusto dire che la determinazione di una donna come Ilaria non è da tutti, eppure tutti devono avere diritto a una risposta di giustizia tempestiva, anche se non hanno la sua determinazione e a prescindere dal fatto di trovarsi dinanzi a un magistrato che dà risposte in tempi particolarmente rapidi».

Non era mai successo, mai, che un ministro smontasse in quattro minuti di videomessaggio un bel po’ di luoghi comuni su lavoro pubblico, catastrofe nei Tribunali e abnegazione dell’avvocatura. Ma non era mai successo neppure che un guardasigilli passasse davanti all’aula in cui si celebra un processo che vede imputati per accuse gravissime alcuni servitori dello Stato. Né che si intrattenesse con i familiari di una persona probabilmente vittima di quei servitori infedeli. E questa è la sfida più dura, per il guardasigilli. Coraggiosa al limite del temerario. Perché compiuta nelle stesse ore in cui dentro e fuori la Corte d’assise del Tribunale di Roma si scava nelle reticenze e nei depistaggi che avrebbero nascosto le responsabilità sulla morte del geometra. E con un comando generale che oggi vede Giovanni Nistri al vertice, ma dove dal 2009 si sono avvicendati altri generali, sulle cui eventuali omissioni o responsabilità si prova a far luce.

E così, mentre Bonafede appena affacciatosi all’aula dice anche personalmente a Ilaria di voler fare in modo che «casi come il suo abbiano giustizia in tempi ragionevoli», dentro quell’aula va in scena l’inimmaginabile. Il pm Giovanni Musarò deposita nuovi verbali integrativi di indagine relativi al procedimento in cui cinque carabinieri rispondono di falso. E disegna «una storia che è costellata, di falsi, proseguita in maniera ossessiva subito dopo la morte di Stefano». Un quadro devastante in cui, tra i militari imputati, la responsabilità maggiore sembrerebbe ricadere sul comandante della compagnia di Roma Montescacro, Luciano Soligo: da lui dipende il comando Tor Sapienza, da dove sarebbe partita la manomissione delle annotazioni sullo stato di salute in cui versava Cucchi dopo le botte prese alla stazione Appia. La regia? Forse del capo Ufficio comando del Gruppo Roma dell’Arma, Francesco Cavallo. E poi forse ancora più su. Con corollari di ogni tipo. Come un carabiniere intercettato quel maledetto 16 ottobre 2009 che di Stefano disse: «Magari morisse, è da oggi pomeriggio che ci sbattiamo con lui». Basta scavare poco per far emergere vergogne di ogni tipo.