Pierpaolo Brega Massone e Fabio Presicci non entravano in sala operatoria accettando l’eventualità di uccidere i propri pazienti. Lo hanno stabilito ieri i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano, riqualificando il reato a carico dell’ex chirurgo toracico della Clinica Santa Rita e del suo vice da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. I due erano accusati di omicidio volontario in relazione alla morte, rispettivamente, di quattro e due pazienti in sala operatoria. Brega Massone è stato condannato a 15 anni, mentre Presicci si è visto ridurre la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi. A giugno dello scorso anno la Cassazione aveva messo tutto in dubbio, annullando con rinvio la condanna all’ergastolo pronunciata nel primo processo d’appello il 21 dicembre 2015: per i giudici non si può parlare di dolo per le vittime, uccise, secondo i pm, da “interventi inutili”, effettuati solo per “monetizzare” i rimborsi del sistema sanitario nazionale.

Un concetto che il procuratore generale Massimo Gaballo ha ribadito anche nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo la conferma dell’ergastolo per Brega Massone e la riduzione da 25 a 21 anni per Presicci, al quale aveva riconosciuto le attenuanti generiche. Secondo Gaballo, c’era una “assoluta carenza di finalità terapeutica degli interventi” finiti al centro dell’inchiesta e gli imputati erano “perfettamente consapevoli di non poter dominare il rischio post operatorio. La morte era una conseguenza prevedibile”.

Un’immagine terribile, che è valsa negli anni a Brega Massone la qualifica di “chirurgo killer”. Un ruolo, secondo il suo avvocato, Nicola Madia, che i media «hanno costruito accuratamente», come «un abito su misura, l’abito di un mostro e per questo ha subito un trattamento così severo». L’ex chirurgo toracico, che al momento della lettura della sentenza non era in aula, sarebbe invece soltanto un «fanatico della chirurgia» che avrebbe pagato la sua “ambizione”.

Brega Massone sta scontando un’altra condanna definitiva a 15 anni e mezzo per truffa e lesioni nei confronti di un’altra ottantina di pazienti. Accusa, quest’ultima, dalla quale continua a professarsi innocente. La sentenza di ieri ha escluso anche l’aggravante del nesso teleologico, ovvero «la finalità di lucro» degli interventi eseguiti dai medici imputati, condannati a risarcire le parti civili. «Sono felicissimo», ha confidato al telefono alle persone a lui vicine l’ex chirurgo. «È una sentenza che mi emoziona, ora vediamo la luce», ha aggiunto la moglie Barbara Magnani, che ha assistito a tutte le udienze. «Non l’ho mai abbandonato - ha aggiunto , è difficile per me parlare oggi. Non ho mai creduto che fosse un mostro e non ho mai perso la speranza nella giustizia, anche se la paura era fortissima».

Assente alla lettura del dispositivo anche Presicci, che è stato radiato dall’albo dei medici e ha già pagato il suo conto con la giustizia. L’ex medico era già stato condannato definitivamente a 8 anni e sei mesi di carcere per un’ottantina di lesioni dolose, pena che ha finito di scontare a settembre. «Mi di- spiace aver fatto soffrire involontariamente delle persone commettendo errori - ha commentato all’Agi -. Non ho mai detto di avere sempre fatto tutto bene, ma non ho mai voluto fare del male ai miei pazienti per carpire la loro fiducia e fargli spendere soldi».

Dopo due sentenze che ritenevano dimostrato il dolo, la svolta è arrivata con la decisione dei giudici della Cassazione, secondo cui non c’era nessuna prova che Brega Massone abbia accettato l’eventualità della morte di quei pazienti. L’ex chirurgo era dunque stato condannato al carcere a vita nonostante non fosse stata dimostrata la sua volontà di correre il rischio di uccidere i propri pazienti pur di eseguire quegli interventi inutili e dannosi, solo per ottenere i rimborsi garantiti dal sistema sanitario. Una sentenza con la quale la Cassazione aveva chiesto ad una nuova sezione della Corte d’Assise d’appello di Milano di valutare “la qualificazione giuridica dei reati, in termini di omicidio volontario, anziché di omicidio preterintenzionale”, escludendo a priori l’ipotesi dell’omicidio colposo. Parole, quelle degli ermellini, che obbligavano i giudici di merito a dimostrare «” a sussistenza dell’ulteriore elemento psicologico rappresentato dal dolo omicidiario” in relazione ai quattro decessi avvenuti dopo interventi privi “di giustificazione e legittimazione medico– chirurgica”. I giudici del primo appello si erano quindi limitati a elencare una serie di possibili indicatori del dolo eventuale, eludendo “il nucleo fondamentale del ragionamento probatorio– argomentativo”, ovvero la prova della volontà degli imputati di agire comunque di fronte alla probabilità che i pazienti perdessero la vita a causa di quegli interventi. Tanto da parlare di “inadeguatezza del percorso motivazionale” dei giudici d’appello in relazione a questo punto, dovuta al fatto di aver attribuito “una dirimente capacità dimostrativa” agli elementi indiziari correttamente utilizzati per dimostrare la natura dolosa delle lesioni provocate nel corso dell’attività medico– chirurgica, ma che non possono invece “valere di per sé a integrare la prova ( anche) della sussistenza dell’elemento psicologico”. Assente, secondo i giudici dell’appello bis.