Caro direttore, Forse non è ben chiaro a tutti quale sia la portata delle responsabilità italiane. Non siamo responsabili di non aver fatto nulla pur sapendo dei lager libici e delle atrocità che vi si commettono: siamo responsabili di averli finanziati. Abbiamo comprato la diminuzione degli sbarchi remunerando le attività della guardia costiera, delle milizie e delle tribù libiche, vale a dire il sistematico rastrellamento di decine di migliaia di persone da costringere in quei campi di raccolta. E lo abbiamo fatto menandone vanto in modo doppiamente cinico e cioè prima chiu- dendo gli occhi davanti alla verità manifesta dei soprusi, delle violenze, delle torture che avevano normale corso in quel carnaio, e poi con l’oltraggio supplementare di impugnare qui a casa nostra il bel risultato statistico degli sbarchi diminuiti agitandolo in faccia a un elettorato molto ben disposto a considerare accettabile che la politica del “rigore” si fondasse su quei presupposti e comportasse un simile prezzo.
Già se ci fossimo limitati a girare la faccia dall’altra parte saremmo gravemente colpevoli: ma abbiamo fatto di peggio. Abbiamo rivendicato la bontà di quella politica, l’efficacia di quelle scelte, l’opportunità di quegli accordi, spiegando che altrimenti sarebbe stata a rischio la tenuta democratica del Paese. Che è un modo elegante per dire che l’ordine sociale italiano val bene l’impianto e il mantenimento di campi di concentramento a un tiro di schioppo da noi.
A chi reclamava la necessità di “rimandare in Libia” la gente che tentava di approdare sulle coste italiane, nessuno replicava che l’operazione si sarebbe risolta puramente e semplicemente nel rimandarli alla tortura e cioè esattamente nella situazione che avrebbe giustificato l’attivazione delle procedure per l’accoglienza in Italia. E nessuno replicava in questo modo perché in questo modo sarebbe stato intollerabilmente evidente il peso delle nostre responsabilità: tenere e respingere laggiù una quantità di esseri umani che costituivano la materia passiva dei nostri esperimenti di gestione dei flussi. Insomma, avremmo dovuto ammettere la necessità di proteggere i migranti da un meccanismo messo in moto e ben oliato da noi stessi.
Parlo di responsabilità “italiane”, senza discrimine negli avvicendamenti di maggioranza e governativi, perché quel che è successo e continua a succedere dovrebbe costituire un patrimonio comune di vergogna e, appunto, di responsabilità. Invece non se ne sta facendo carico nessuno, e ancora una volta si assiste alla comune indifferenza davanti a un’edizione solo aggiornata dell’ennesimo scempio di ogni diritto. C’è però un fatto che fa la differenza, in questo caso, ed è quel che si diceva all’inizio: lo stipendio ai torturatori siamo noi a pagarlo.
I torturatori in Libia li paghiamo noi?
Caro direttore, Forse non è ben chiaro a tutti quale sia la portata delle responsabilità italiane. Non siamo responsabili di non aver fatto nulla pur sapendo dei lager libici e delle atrocità che vi si commettono: siamo responsabili di averli finanziati. Abbiamo comprato la diminuzione degli sbarchi remunerando le attività della guardia costiera, delle milizie e delle tribù libiche, vale a dire il sistematico rastrellamento di decine di migliaia di persone da costringere in quei campi di raccolta. E lo abbiamo fatto menandone vanto in modo doppiamente cinico e cioè prima chiu- dendo gli occhi davanti alla verità manifesta dei soprusi, delle violenze, delle torture che avevano normale corso in quel carnaio, e poi con l’oltraggio supplementare di impugnare qui a casa nostra il bel risultato statistico degli sbarchi diminuiti agitandolo in faccia a un elettorato molto ben disposto a considerare accettabile che la politica del “rigore” si fondasse su quei presupposti e comportasse un simile prezzo.
Già se ci fossimo limitati a girare la faccia dall’altra parte saremmo gravemente colpevoli: ma abbiamo fatto di peggio. Abbiamo rivendicato la bontà di quella politica, l’efficacia di quelle scelte, l’opportunità di quegli accordi, spiegando che altrimenti sarebbe stata a rischio la tenuta democratica del Paese. Che è un modo elegante per dire che l’ordine sociale italiano val bene l’impianto e il mantenimento di campi di concentramento a un tiro di schioppo da noi.
A chi reclamava la necessità di “rimandare in Libia” la gente che tentava di approdare sulle coste italiane, nessuno replicava che l’operazione si sarebbe risolta puramente e semplicemente nel rimandarli alla tortura e cioè esattamente nella situazione che avrebbe giustificato l’attivazione delle procedure per l’accoglienza in Italia. E nessuno replicava in questo modo perché in questo modo sarebbe stato intollerabilmente evidente il peso delle nostre responsabilità: tenere e respingere laggiù una quantità di esseri umani che costituivano la materia passiva dei nostri esperimenti di gestione dei flussi. Insomma, avremmo dovuto ammettere la necessità di proteggere i migranti da un meccanismo messo in moto e ben oliato da noi stessi.
Parlo di responsabilità “italiane”, senza discrimine negli avvicendamenti di maggioranza e governativi, perché quel che è successo e continua a succedere dovrebbe costituire un patrimonio comune di vergogna e, appunto, di responsabilità. Invece non se ne sta facendo carico nessuno, e ancora una volta si assiste alla comune indifferenza davanti a un’edizione solo aggiornata dell’ennesimo scempio di ogni diritto. C’è però un fatto che fa la differenza, in questo caso, ed è quel che si diceva all’inizio: lo stipendio ai torturatori siamo noi a pagarlo.
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