«Sì, è ancora in atto una crociata antigiudiziaria senza eguali». Ne è convinto Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta. L’analisi parte dall’inchiesta agrigentina sulla nave Diciotti, che ha riaperto la ferita del conflitto tra magistratura e politica, eppure Caselli non se ne stupisce: «La storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati che adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno».

L’iniziativa del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che ha indagato il ministro Matteo Salvini per la gestione del caso della nave Diciotti, ha diviso le opinioni sia della classe politica che della magistratura. Lei ha condiviso la scelta del pm?

Premetto che mi sono sempre astenuto dal prendere posizioni specifiche su inchieste in corso. Pertanto, anche in questo caso mi limiterò a considerazioni generali e astratte. Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. E’ vero che a questa concezione di democrazia una “robusta” corrente di pensiero vorrebbe sostituirne un’altra: basata sul primato della politica ( meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti. Ma il perimetro rimane sempre quello della Costituzione vigente. Quindi se “la sovranità appartiene al popolo”- il che significa che in democrazia chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto- dovere di operare le scelte politiche che vuole – è chiaro anche che ogni potere democratico incontra dei limiti prestabiliti, che la nostra Costituzione fissa fin dal suo primo articolo, là dove stabilisce che la sovranità si “esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

E questo come si traduce nel caso di specie? Per il ministro Salvini è stato ipotizzato il reato di sequestro di persona.

Uno dei limiti di cui dicevo è scolpito nell’articolo 13 della Carta, che proclama “la libertà personale è inviolabile”, nel senso che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Dunque, il primo interrogativo che ci si deve porre - tenendo conto anche delle regole che la comunità internazionale ed i singoli stati si sono date, a partire dalla Convenzione di Amburgo del 1979 - è se vi sia stata o meno lesione del principio dell’inviolabilità della libertà personale ( con le eventuali conseguenze sul piano processual- penale) nella fattispecie della nave Diciotti, col suo “carico” di persone bloccate a bordo per giorni e giorni per disposizione del ministro degli interni. In altre parole, si tratta di stabilire se il caso in esame appartiene alla sfera della dignità e dei diritti di tutti, una sfera non decidibile, cioè sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi ( una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia.

Lei ritiene sia cosi?

Senza entrare nel merito, che sarà verificato nelle suc- cessive fasi di giudizio, le rispondo che nel nostro ordinamento l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e la legge uguale per tutti: per cui definire infondata l’iniziativa della procura agrigentina sarebbe quanto meno azzardato.

L’iniziativa del procuratore Patronaggio ha avuto enorme risalto mediatico e le immagini di lui che sale sulla Diciotti hanno colpito molto. Ritiene si possa parlare di spettacolarizzazione di quest’iniziativa giudiziaria?

Il procuratore di Agrigento, ispezionando la nave, ha compiuto un atto necessario ed utile per valutare in presa diretta la situazione sulla quale eventualmente intervenire. Se fosse rimasto chiuso nel suo ufficio mentre la tempesta imperversava avrebbe dimostrato insensibilità. Invece, conoscere per meglio giudicare è la strada giusta per i magistrati non burocrati che si ispirano, oltre che al rispetto delle regole, anche all’etica della responsabilità. Certo è che in questo modo ci si espone e si può diventare protagonisti senza protagonismo. Semplicemente facendo il proprio dovere.

La procura di Agrigento, tuttavia, è stata oggetto di attacchi dopo l’iniziativa. È il prezzo da pagare, oggi, per ogni pm che indaga su vicende al centro del dibattito pubblico?

Con “Tangentopoli” e “Mafiopoli” si è registrata la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti”. Costoro non potevano rimanere indifferenti. E difatti hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali.

C’è chi parla, all’inverso, anche di crociata “antipolitica” da parte della magistratura.

Ma è un paradosso. Se un magistrato si occupa di un politico, ricorrendo gli estremi in fatto e in diritto di un’accusa di corruzione o collusione con la mafia, subito scatta il riflesso pavloviano secondo cui a fare politica sarebbe il magistrato. Ma c’è di peggio. Non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si è assistito nel nostro Paese, con un crescendo impressionante: un diluvio quotidiano di insulti e calunnie volgari, da osteria, ma ossessivamente riproposti fino a trapanare i cervelli. E si sa che a forza di ripeterle anche le fandonie più clamorose finiscono per sembrare vere. Contemporaneamente, ha preso a dilagare l’idea, terribilmente italiana, di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé. Infine, si è verificata l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Fino al punto, che si è verificato proprio nel caso di cui stiamo parlando, che un importante esponente politico del Carroccio abruzzese ha minacciato i magistrati con parole vergognose: «Se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa... occhio». Si è tornati alle intimidazioni squadristiche.

Volendo fare l’avvocato del diavolo, verrebbe da dire che la magistratura come categoria ha avuto reazioni diverse all’iniziativa di Patronaggio. L’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, ha scritto che ' L’idea che le Procure possano intervenire nella scelte migratorie è non solo bizzarra, ma irrazionale ed ingestibile'.

La magistratura, per quanto mi risulta, si è schierata compattamente a difesa dell’indipendenza dei magistrati di Agrigento. Questo e non altro, insieme alla tutela dei diritti di tutti attraverso il doveroso controllo di legalità, è il fulcro del problema.

Allargando lo spettro, ritiene che questa sia stata la proverbiale goccia che ha fatto di nuovo traboccare il vaso, infiammando di nuovo lo scontro tra magistratura e politica?

Una delle maggiori anomalie italiane degli ultimi 25 anni è stata il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro, la difesa non tanto “nel” quanto piuttosto “dal” processo, con una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura» da parte di pezzi di Stato - e mi riferisco a inquisiti “eccellenti” o comunque soggetti forti mentre in passato a praticarlo erano sue antitesi, vale a dire opposizioni radicali, fino alle “Brigate rosse”. Dunque, la storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati “scomodi”, perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno e con “troppa” indipendenza. Questo malvezzo si è articolato anche a colpi di leggi ad personam, lodi assortiti, commissioni bicamerali e sistematici dinieghi di autorizzazioni a procedere. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio.

Una patologia di sistema, in cui lei non distingue tra governi di destra e sinistra?

Io credo si sia disegnato un vero e proprio circolo vizioso che ha coinvolto trasversalmente le forze politiche, alcune più attive e altre meno, ma in ogni caso tutte interessate a limare le unghie della magistratura. Un circolo vizioso che si dovrebbe spezzare nell’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale.

Tornando all’oggi e dunque al nuovo governo, l’Anm ha chiamato in causa il Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Secondo lei avrebbe dovuto intervenire in modo più forte in difesa della magistratura?

Alla fine il ministro della Giustizia qualcosa ha detto, sia pure con un certo ritardo e attestandosi sul minimo sindacale.

Il ministro Salvini, invece, ha parlato di necessità di una riforma della giustizia. È strumentale farlo in concomitanza di un’inchiesta a suo carico?

Mi preoccupa che abbia parlato dell’inchiesta di Agrigento come di un possibile “boomerang”. Se voleva dire - ma spero non volesse farlo - che ne deriverà una riforma della giustizia, mi limito ad osservare che le riforme “ab irato” sono sempre le peggiori.

La giustizia già è o potrebbe diventare il banco di prova di questo governo?

Sono 58 le cartelle del “contratto per il governo” grillo- leghista. Una dozzina, quasi il 20%, riguardano la “giustizia rapida ed efficiente” e altri temi a vario titolo connessi, come la corruzione, i reati ambientali, l’ordinamento penitenziario, la sicurezza nelle sue molteplici declinazioni eccetera. In generale si tratta di linee guida piuttosto generiche e talora persino ambigue o fumose. Soltanto ove e quando fossero tradotte in specifici e articolati progetti concreti sarà possibile valutarne la portata effettiva, le implicazioni e gli effetti. Qualcosa di chiaro, però, c’è.

Che cosa?

Trovo che sia precisa e ben articolata la linea di intervento in tema di corruzione, con una sequenza di misure forti: l’inasprimento delle sanzioni; l’esclusione dei riti alternativi; la previsione del cosiddetto Daspo e dell’agente sotto copertura; la valutazione dell’agente provocatore; la tutela del Whistleblower e l’ampliamento della possibilità di intercettazioni. Nel complesso si tratta di un pacchetto idoneo a conseguire l’obiettivo fondamentale in materia: rendere la corruzione sempre meno appetibile e non – come oggi - decisamente conveniente in base al calcolo costi/ benefici.

C’è altro che la convince?

Paradossalmente, la cosa più positiva del “contratto” è un’omissione. Vale a dire che non parla di separazione delle carriere fra pm e magistrati giudicanti, uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi & company.

Eppure il dibattito è ancora aperto, per lo meno in ambito giuridico.

Checché se ne dica, è dimostrato che il risultato ineludibile e verificabile di tale separazione - ovunque nel mondo - è la dipendenza del pm dal potere esecutivo, che influisce sull’azione penale con ordini o direttive vincolanti. Un grave pericolo per l’indipendenza della magistratura italiana scolpita nella Costituzione come premessa all’effettiva uguaglianza dei cittadini, anche perché nel nostro paese le “tentazioni” di certa politica, corrotta o collusa col malaffare, sono sempre dietro l’angolo. Non tenerne conto sarebbe - per gli onesti - un’astrazione masochistica. Ovviamente, va ricordato che la separazione delle carriere è cosa ben diversa da quella delle funzioni, ormai una realtà acquisita dal nostro ordinamento.