Negli oltre diciotto mesi che separano la pubblicazione di questo articolo da quella del precedente, sono accadute molte cose determinanti per le sorti della vicenda di Dreyfus.

Non solo la condanna di Zola per la presunta diffamazione a carico dei giudici militari, ma anche la radiazione dai ranghi dell’esercito del colonnello Picquart, colui che aveva scoperto la colpevolezza di Esterhazy e l’innocenza di Dreyfus, ma soprattutto il fatto decisivo: il maggiore Henry confessa al Ministro Cavaignac di aver personalmente confezionato e perciò materialmente falsificato il documento sulla base del quale era stato condannato Dreyfus.

Subito dopo Henry si suicida, mentre Esterhazy, comprendendo che ormai la sua posizione è indifendibile, ripara precipitosamente in Inghilterra: e Proust sapidamente commenta: “Il caso era puro Balzac, ora diventa shakespeariano”.

Queste novità conducono naturalmente a riaprire il procedimento nei confronti di Dreyfus, che viene riportato in Francia per un nuovo processo da celebrare a Rennes, mentre Paty de Clam, autore primo di tutto il complotto contro Dreyfus, viene arrestato.

Tuttavia, assurdamente e contro ogni lecita aspettativa, la Corte di Rennes ancora una volta e in modo totalmente antigiuridico, condanna di nuovo Dreyfus, ma soltanto a dieci anni, “compreso il sofferto”.

Prevedo il quesito di ciascuno: ma potevano farlo? No. E tuttavia lo fecero. E lo fecero per una ragione che agli occhi di quei sedicenti giudici appariva tanto cogente da indurli ad andare contro il buon senso: continuare, contrariamente ad ogni attesa, a difendere l’operato dei primi giudici, alla cui corporazione ( l’esercito) loro stessi appartenevano.

Come dire che fra la libertà di coscienza – che doveva di filato indurre alla assoluzione di Dreyfus con la formula più ampia – e la difesa corporativa della classe di appartenenza, la Corte di Rennes preferisce questa a quella.

Nulla di nuovo, per carità.

Capita anche nel nostro tempo che alcuni Tribunali si facciano un po’ troppo condizionare dall’opera di una Procura, troppo sensibilizzandosi alle sue richieste ed alla sue attese.

E tuttavia, sempre e in ogni caso, determinazione assurda e antigiuridica, come assurda e antigiuridica fu la condanna di Rennes, che, non a caso, ci fu, ma fu straordinariamente mite, considerata la gravità del reato contestato ( spionaggio e alto tradimento), e tenendo conto che Dreyfus aveva trascorso già cinque anni in deportazione: segno che i componenti della Corte di Rennes, pur decisi a difendere la corporazione, non volevano esagerare; così, tanto per poter dormire la notte. E dormirono.

Ma Zola, per queste medesime ragioni, non dormiva. Anzi. In questo articolo, pubblicato due giorni dopo la condanna di Rennes, egli non manca di fustigare letteralmente coloro che si erano resi responsabili di questo ulteriore scempio perpetrato nei confronti delle più elementari ragioni della giustizia attraverso la nuova condanna inflitta a Dreyfus, sia pure irrogatrice di una pena assai modesta e in gran parte già scontata.

Inflitta, insomma, per salvare – come si dice con efficace proverbio contadino - capra e cavoli: la capra della salvaguardia dell’operato dei precedenti giudici che avevano condannato il capitano ebreo e i cavoli della propria coscienza che avrebbe potuto loro impedire, appunto, di dormire.

Così, Zola non esita a denunciare il processo di Rennes come “il monumento più ripugnante dell’infamia umana”. E aggiunge icasticamente che “ L’ignoranza, l’idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine vi sono ostentati con una tale spudoratezza che le generazioni future ne arrossiranno di vergogna”.

E ciò è tanto più vero, in quanto Zola aveva raggiunto la assoluta ed incontestabile certezza della colpevolezza di Esterhazy, il quale, tempo prima, aveva fornito documenti segreti al Colonnello Schwartzkoppen, addetto militare presso l’Ambasciata tedesca a Parigi.

Ecco perché, sulla scorta di ciò, l’avvocato Labori, difensore di Dreyfus, aveva chiesto di sentire come testimoni alcuni addetti militari stranieri informati della circostanza: richiesta tuttavia puntualmente rigettata dai giudici.

Come dire, chiosa Zola, che la Corte abbia affermato, a scanso di equivoci, “non vogliamo che ci venga fornita la prova, perché vogliamo condannare”.

E, d’altra parte, perché meravigliarsi se l’avvocato Labori, nel corso del processo, era stato addirittura ferito da una revolverata esplosa da un sicario rimasto ignoto?

Se questo era il clima in cui questo nuovo processo veniva celebrato, cosa attendersi di diverso, se non una nuova condanna per l’innocente Dreyfus?