Volete capire che potenza è Aretha Franklin, volete farvene un’idea perché non siete tra i fortunati che l’hanno sentita cantare dal vivo? Andate su internet, cliccate “ Aretha Flankin e Blus Brothers”.

Vi scorre davanti agli occhi, e potrete ascoltare la sua voce limpida e potente, unica, inconfondibile. In quella scena di un film diventato oggetto di culto, Aretha interpreta la parte della moglie di Matt “Guitar” Murphy: non vuole che il marito torni a suonare con Jake & Elwood ( John Belushi e Dan Aykroyd), perché dovrebbe lasciare il suo lavoro di cuoco nel ristorante che hanno aperto insieme. Murphy, che nel film recita la parte di sé stesso, è stato davvero un chitarrista blues, e ha partecipato sin dall’inizio alla band che accompagnava il duo comico musicale composto appunto da Belushi e Aykroyd. Nella scena in questione Aretha è accompagnata dal sax Lou Marini e da tre coriste: Carolyn, sorella di Aretha; Brenda B. Corbett e Margaret Branch.

Un “siparietto” che diventa un grande, radicale, inno femminile alla libertà. E dire, confessa il regista John Landis, che è nata quasi per caso, e l’hanno pensata in corso d’opera. “Think” risale, come singolo al 1968. Appare nell’album “Aretha Now'; poi viene reincisa undici anni dopo, e finalmente diventa uno dei più grandi successi di una lunga, unica, carriera musicale. Brano scritto dalla stessa Aretha insieme all’allora marito Ted White.

Guardatela quella scena: è straordinaria la presenza scenica di questa artista capace insieme di entusiasmare, commuovere, elettrizzare. Un “qualcosa” di tale portata che fa passare i secondo piano la presenza di altri grandi artisti come lei protagonisti di intermezzi musicali ( e sono calibri del tipo di Ray Charles, James Brown, Cab Calloway, John Lee Hooker). Quel martellante, sincopato, “Freedom” è un inno per ogni libertà e rivendicazione radicale.

Davvero vien da domandarsi come, a differenza di altri artisti molto meno dotati, Aretha sia stata così poco utilizzata da Hollywood. Prima di “ The Blue Brothers”, appare solo in un episodio della serie tv “Room 222” nel 1972; e successivamente nel ruolo di Mrs. Murphy nel trascurabile sequel “ Blue Brothers – Il Mito continua”. In questo film, che si può tranquillamente dimenticare, c’è comunque la “zampata”: Aretha questa volta canta “Respect”.

Regina del soul, non solo. Donna forte, sensibile, cresce, canta, suona il pianoforte nella chiesa battista dove il padre predica: Bibbia e diritti civili: binomio inscindibile. Aretha attraversa così quella appassionata e appassionante stagione degli anni Cinquanta e Sessanta che idealmente comincia con il famoso NO di Rosa Parks ( la donna afroamericana che non vuole cedere il posto nell’autobus e andare nella parte riservata ai neri), e si snoda con le marce da Selma a Montgomery, fino al celebre discorso di Martin Luther King. “I have a dream”.

Il padre di Aretha è un attivista per i diritti civili: una figura carismatica nella comunità nera di Detroit; e King è un amico di famiglia. Mahalia Jackson, la prima donna del gospel, una presenza quotidiana e amica. E’ in questo contesto che cresce e vive Aretha. Adolescenza segnata da grandi dolori. La madre muore quando lei ha appena dieci anni. Il padre nel 1984, dopo cinque anni di coma. Una notte di giugno del 1979 un uomo si introduce in casa e gli esplode due colpi di rivoltella. Si parla di tentata rapina; chissà… Fin da adolescente Aretha mostra carattere, sa il fatto suo. Ha appena 19 anni, quando un volpone del giornalismo musicale, Aaron Cohen, la intervista; lei senza esitazione gli spiega quali saranno i binari della sua vita, quale sarà la sua missione: blues, diritti civili, messaggio religioso. “Non credo”, dice sicura, “di fare un cattivo servizio al Signore: ho deciso di dedicarmi al blues, una musica nata dalle sofferenze della mia gente ridotta in schiavitù. Ogni canzone nata dalla vena del blues ha una storia d’amore, frustrazione e dolore da raccontare. E sono convinta che la democrazia di oggi non ci abbia affatto liberati. E’ per questo che noi, come gente, troviamo ancora tanto significato nel blues originale”.

Ne fa fede – è il caso di dirlo – quello che unanimemente viene considerato il suo album più significativo: quell’“ Amazing grace” registrato live il 13 e 14 gennaio del 1972 alla “ New Temple Missionary Baptist Church” di Los Angeles: gospel puro che ammalia e incanta. Un simbolo per i neri, una leggenda per i bianchi; un esempio per le donne. Per tutta l’America liberal un simbolo.

Irresistibile e irriducibile, sembra fatta d’acciaio. Otto anni fa le viene diagnosticato il cancro. Dirada gli impegni artistici, ma non si ritira. E quando c’è una causa che le preme non ci pensa due volte: come quando decide di esibirsi a New York per la Elton John Aids Foundation, nonostante i medici le abbiano prescritto asso-luto riposo.

Una vita e una carriera costellata da una interminabile serie di primati. Formidabili duetti con tutti i “big” a cominciare da Frank Sinatra e il grande Otis Redding; diventa la “Eleanor Rigby” dei Beatles, è l’icona e la bandiera dell’orgoglio nero. Ascoltatela in “ Do Right Woman”, di fatto un baedeker per le ragazze alle prese con rapporti di coppia turbolenti: “ Perché bisogna anche saper dire no”. Davvero fortunato chi ha avuto la possibilità di sentirla cantare dal vivo; per gli altri, beh: devono accontentarsi dei dischi, delle registra-zioni.