di Nunzio Raimondi*

Caro professor Dalla Chiesa, leggendo la sua intervista, apparsa ieri sul Dubbio, mi è sorto un interrogativo impellente. Nando dalla Chiesa è stato scelto per far parte e presiedere il Comitato scientifico regionale Antimafia, per la sua storia personale e familiare, in quanto professore di sociologia o per cos’altro?

Ovviamente, la domanda non ha nulla di personale ma attiene, a mio modo di vedere, ad un tema più ampio che, nel dibattito di questi giorni, sorto a seguito della Sua iniziativa nei confronti dell’Avvocato Zampogna, mi è sembrato sia rimasto un po’ in sordina. Io penso, infatti, che, aldilà del debito di riconoscenza - che tutti noi italiani conserviamo – nei confronti di suo padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lei sia stato scelto quale simbolo della lotta al crimine organizzato e quale esperto, in quanto sociologo, del fenomeno mafioso. In un bel libro di Isaia Sales dal titolo “storia dell’Italia mafio- sa”, il noto meridionalista afferma che “ i fienomini criminali, come le mafie, quando durano tanto a lungo, quando rompono facilmente l’argine entro cui si pensava fossero storicamente e socialmente confinati, vuol dire che essi non sono più riconducibili solo a storia criminale, ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana”. Cosa sottende questo richiamo? Che le mafie sono oramai elementi destabilizzanti dell’ordine sociale e di questo si occupa il diritto penale quando opera soprattutto per recidere i rapporti delle mafie con le istituzioni, politiche e statuali, con l’economia.

Rispetto a questo fenomeno criminale, come del resto con riguardo ad ogni delitto ( ferita nel corpo sociale, come insegnava Antolisei), la società tutt’intera deve saper reagire. Verso questo scopo sono orientati anche i Comitati Antimafia, i quali impegnano, in questo contrasto, tutte le componenti della società e del territorio.

Mi vado chiedendo in che Paese viviamo se, nel terzo millennio, siamo ancora a discutere se gli avvocati siano o meno impegnati in questo contrasto!

Gli avvocati, come i magistrati giudicanti e requirenti, indossano ogni giorno la stessa toga per contribuire ad accertare, ciascuno per la propria parte, se qualcuno debba essere punito e come, secondo un sistema normativo nel quale i giudici hanno il monopolio degli strumenti per la decisione.

Ebbene, come si può dubitare che il difensore tecnico, protagonista alla pari del pubblico ministero, di un processo di parti, possa contribuire a questo sforzo comune contro il crimine?

La verità è che la sorprendente posizione che lei ha assunto, sembra nascere da un pregiudizio sociale: ossia che l’avvocato difensore dell’imputato, quest’ultimo mafioso e non, colluda col suo cliente per sviare dal giusto e dal vero.

E’ una posizione non soltanto non condivisibile in sé ma sorprendente, perché propugnata da un sociologo che di pregiudizi sociali se ne intende e che ben conosce, a quanto pare, quale enorme contributo al contrasto al crimine, organizzato e non, offrono ogni giorno tutti gli avvocati difensori ( al netto delle “mele marce” presenti in tutte le categorie…) che si battono, nelle aule di giustizia, per i diritti e le garanzie.

Infatti, è proprio in ciò che sta la differenza fra “noi”, tutti, comunità dei cittadini onesti e con le mani pulite, e “loro”, i criminali, i quali risolvono tutto con un colpo di pistola.

A noi, occorrono udienze, regole, garanzie, procedure complesse, per arrivare ad un primo giudizio di merito, dipoi ad un secondo giudizio di merito ed infine ad un giudizio di legittimità.

Un cimento nel quale siamo impegnati, con studio e dedizione, spesso per anni, con dispendio di energie e tanta fatica, nel quale anche lo Stato profonde grandi risorse ( vi sono Paesi nel mondo – come lei ben sa – nei quali per un processo davvero giusto si spende assai poco…), e soltanto per distinguerci da “loro”, per usare il presidio della forza in modo logico, razionale, il più possibile esente da errori. E di questi errori, quando ci sono, siamo responsabili tutti, non solo i magistrati, i quali si vantano di aver avuto “solo” ( si fa per dire) cinque scarcerazioni su centinaia di arresti… e che si sentono screditati da alcuni giornalisti ( una netta minoranza rispetto alla platea vasta di quelli osannanti...) che, con le loro domande, infastidiscono. ( il riferimento è al dottor Gratteri, ndr)

Perché ogni volta che anche un solo innocente rimane in carcere, od un solo colpevole torna a delinquere, “il peso” ( direbbe Sartre) “di questi cinquanta milioni di francesi che vi camminano sulle spalle”, l’abbiamo tutti noi, tutta la società, non soltanto il supermagistrato che vuol far pensare che la mafia la contrasta solo lui, oppure i professionisti dell’antimafia, i quali si accreditano come gli unici portatori del vessillo della legalità.

Ora gli avvocati, i quali possono contare su una brillante storia d’impegno civile, hanno cercato sempre, attraverso l’affer-mazione dello Stato di diritto e la tutela del “diritto di avere diritti” ( come non ricordare l’insegnamento di Stefano Rodotà), fuori e dentro il processo, di rafforzare la debole identità nazionale del nostro Paese, quella nella quale si sono aperti, purtroppo, ampi spazi di manovra per le mafie, per il loro radicamento, per il loro sviluppo.

Armando Veneto, un grande maestro del diritto penale italiano, ha insegnato che il diritto penale non può che essere “dialogico” e che un contraddittorio dinanzi ad un’autorità effettivamente terza, è il presupposto necessario per quello che è stato felicemente definito il “garantismo della punibilità del fatto”. Perché una pena, quella da infliggere dopo lunghi e difficili processi, che non offra un orizzonte rieducativo, nel quale il reo venga posto nella condizione di confrontare il suo comportamento con i valori pubblici violati, equivale a forza bruta a violenza inutile, incapace di produrre un’accettazione dei principi che la sostengono.

Ciò ho voluto ricordare soltanto perché non si seguiti ad affermare che gli avvocati difensori di imputati, mafiosi e non, nel processo penale, non meritano di stare dalla parte della legalità: essi, viceversa, sono i promotori della legalità e dei diritti e nei Comitati antimafia ci possono e ci devono stare, non perché possono portare il punto di vista degli imputati ( come pure ho letto), ma perché essi sono i garanti dei diritti dell’imputato, attraverso i quali si fa giustizia giusta, e qundi, anche, direi soprattutto, antimafia.

* PROFESSORE DI DIRITTO PENALE ALLA MAGNA GRECIA DI CATANZARO