Giovanni Orsina, da par suo, ha proposto e sviluppato sulla Stampa del 4 agosto un confronto fra le due “rivoluzioni” che hanno investito in 24 anni l’Italia: la prima portando il nome di Silvio Berlusconi, nel 1994, e la seconda quello di Beppe Grillo, in questo 2018.

Berlusconi impose al mercato politico, irrompendo nel governo, un simil- partito dal nome preso in prestito dal mondo del calcio in cui eccelleva col suo Milan: Forza Italia. Grillo ha appena portato al governo un simil- partito, pure lui, con un nome preso in prestito addirittura dal cielo ridotto a cinque stelle, e fingendo di elevarsi sui suoi nel ruolo di garante. Che gli conferisce ogni tanto le apparenze della Sibilla Cumana con i suoi oracoli sul destino delle Camere, delle carceri, dell’Ilva di Taranto e degli altri temi che, di diritto o di rovescio, entrano ed escono dal dibattito politico o dall’agenda del governo.

Quella in corso è considerata da Orsina “una replica peggiorata” della rivoluzione berlusconiana del 1994. Ed è difficile dargli torto perché, pur sorprendente e vistosa, la vittoria elettorale del centrodestra di Berlusconi demolì il suo antagonista Achille Occhetto, avventuratosi alla guida di una “giocosa macchina da guerra”, ma non compromise, anzi accelerò la composizione di uno schieramento alternativo di centrosinistra. Che due anni dopo si sarebbe presa la rivincita, replicata nel 2006.

Adesso, francamente, del centrosinistra, per quanti sforzi facciano i suoi cultori di rianimarlo, non è forse esagerato parlare come faceva Metternich liquidando l’Italia come “un’espressione geografica”. Arriverà forse anche il suo Risorgimento, con la maiuscola, ma chissà quando, viste le condizioni in cui si svolge da quelle parti il dibattito politico. In cui le polemiche interne prevalgono sul ruolo di opposizione assunto forse più per rassegnazione che per convinzione, più subendolo in attesa che qualche incidente della maggioranza riapra chissà quali e quanti giochi che promuovendolo.

Uguale invece, secondo Orsina, sarebbe l’avversione del cosiddetto establishment verso il governo Berlusconi nel 1994 e il governo grilloleghista, o gialloverde, in questo 2018. Ma qui è più difficile convenire con l’editorialista e politologo della Stampa.

Per fermarci al vertice istituzionale, cioè al presidente della Repubblica, è ancora fresca la memoria della lunga crisi nella quale Sergio Mattarella maturò con disagio per niente nascosto la decisione di nominare il governo in carica. Egli incorse ad un certo punto persino nella minaccia dell’attuale vice presidente grillino del Consiglio, Luigi Di Maio, di promuovere contro di lui in Parlamento lo stato di messa d’accusa per alto tradimento. Fu una minaccia, formulata dopo che Mattarella aveva rifiutato la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia e provocato la conseguente rinuncia di Giuseppe Conte all’incarico di presidente del Consiglio, cui sopraggiunse un traffico digitale di critiche, insulti e quant’altro al presidente della Repubblica finito proprio in questi giorni all’esame della magistratura e persino dell’antiterrorismo.

Oltre alla proposta di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia, Mattarella aveva in qualche modo contestato la stessa designazione di Conte a Palazzo Chigi, precisando di averla accolta con qualche riserva, avendo preferito una persona eletta alle Camere e con maggiore esperienza politica.

Superato poi lo scoglio di Savona e sbloccata la formazione del governo con Giovanni Tria al ministero dell’Economia, Mattarella non è rimasto inoperoso. Egli ha esercitato, all’ombra dell’opera di persuasione abitualmente svolta dal capo dello Stato, una vigilanza stretta su un governo di dichiarato, anzi vantato cambiamento, ma anche atipico nella storia degli esecutivi italiani. Atipico, perché composto da due partiti presentatisi alternativi l’uno all’altro agli elettori del 4 marzo e raccoltisi non attorno ad un programma ristretto e di emergenza, com’era capitato nella cosiddetta prima Repubblica di fare ai democristiani e comunisti nella parentesi della maggioranza di solidarietà nazionale, fra il 1976 e il 1978, ma attorno ad un “contratto” studiato per durare l’intera legislatura. Addirittura, secondo Salvini, l’anticipo di un trentennio.

Proprio Salvini, peraltro, alla guida del ministero dell’Interno ha già impensierito Mattarella. Prima egli ha cercato di coinvolgerlo in una vertenza giudiziaria del proprio partito fatta anche di sequestri alla ricerca, da parte dello Stato, di una cinquantina di milioni di euro contestati. Poi lo ha praticamente obbligato a intervenire sul presidente del Consiglio per sbloccare una nave di profughi ferma per disposizioni del Viminale al largo visibile delle coste italiane, in attesa che la magistratura competente si decidesse ad ordinare l’arresto, reclamato dallo stesso Salvini, di alcuni di essi sospettati di avere sostanzialmente dirottato i primi soccorritori che stavano trasportandoli verso i porti libici di provenienza.

Ormai non c’è esternazione di Mattarella al Quirinale o fuori, in Italia o all’estero, in cui non si possa cogliere, volendo, un monito o una puntualizzazione rispetto alle posizioni del governo o di qualcuno dei suoi ministri, che dal canto loro mostrano di non tenerne molto conto. Emblematico, a questo riguardo, può essere considerato il no che ripete in ogni occasione all’approdo pugliese del gasdotto Tap la ministra grillina al Mezzogiorno, Barbara Lezzi. E ciò anche dopo che Mattarella il 18 luglio scorso, in visita ufficiale in Azerbaigian ha testualmente dichiarato alla presenza del presidente ospitante Ilhan Aliyev: “La scelta strategica del corridoio sud del gas è condivisa dall’Italia e la Tap, parte del corridoio, è il naturale completamento”.

Fra gli ultimi interventi critici del presidente della Repubblica può essere annoverato anche l’auspicio che non si ricorra a “forzature” nel ricambio ai vertici della Rai. Dove Marcello Foa, bocciato come presidente dalla commissione parlamentare di vigilanza, è stato esplicitamente invitato dal vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Salvini, che ne aveva sostenuto la candidatura, a rimanere al suo posto, al settimo piano dell’edificio di viale Mazzini, come esponente più anziano del nuovo Consiglio di amministrazione. E a convocare questo Consiglio persino per procedere alle nomine interne più o meno urgenti, anche a costo di provocare contenziosi che i grillini vorrebbero risparmiare all’azienda, al pari questa volta delle opposizioni.

Diversamente da Orsina, che - come dicevo - ha messo le due “rivoluzioni” sullo stesso piano a livello di partenza, direi che a Berlusconi nel 1994 andò peggio di quanto sia accaduto, pur con tutte le difficoltà appena ricordate, a Giuseppe Conte col governo in carica.

Per quanto eletto, anzi stra- eletto, e capo di una coalizione uscita dalle urne con una maggioranza autosufficiente alla Camera sin dall’inizio, e subito dopo diventata tale anche al Senato con passaggi dall’allora Partito Popolare- ex Democrazia Cristiana, Berlusconi dovette penare per ottenere l’incarico di presidente del Consiglio dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Che nelle consultazioni per la formazione del primo governo della nuova legislatura, fece un interrogatorio quasi di terzo grado al leader della Lega Umberto Bossi sulla reale volontà di mandare il suo alleato elettorale a Palazzo Chigi, dopo tutti i “Berluscaz” che gli aveva gridato durante la campagna elettorale non gradendo il suo rapporto con Gianfranco Fini, formalizzato solo nelle liste elettorali del centro- sud.

Quando gli fu chiara l’impossibilità di puntare già in quel momento alla rottura del centrodestra, Scalfaro si decise a incaricare Berlusconi di formare il nuovo governo consegnandogli inusualmente una lettera d’indirizzo politico: quasi un programma. Che il Cavaliere, sentendosi forte della vittoria elettorale, fu tentato di rifiutare, convinto infine ad accettare da Gianni Letta, che da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e con la conoscenza e frequentazione che aveva del vecchio mondo democristiano, si riprometteva di gestire personalmente, e al meglio, gli incipienti e già difficili rapporti col Quirinale.

Ma neppure Letta riuscì nelle ultime, convulse ore della preparazione della lista dei ministri ad evitare il fermo no opposto da Scalfaro alla proposta di Berlusconi di affidare il ministero della Giustizia ad uno dei suoi avvocati, il più pratico degli ambienti romani: Cesare Previti. Che fu invece dirottato al Ministero della Difesa, lasciando il dicastero di via Arenula al liberale Alfredo Biondi, avvocato pure lui, ma senza avere mai avuto come cliente il nuovo presidente del Consiglio.

Al comparire dei primi contrasti nella maggioranza fra Berlusconi e Bossi, che in canottiera frequentava le spiagge sarde, limitrofe a quelle del presidente del Consiglio, con stile e parole non proprio d’idillio, Scalfaro alzò le antenne tra il Quirinale, Castel Porziano e la sua abitazione privata di Santa Severa.

Lo stesso Bossi raccontò in seguito di essere stato contattato di frequente e personalmente dal presidente della Repubblica per ricevere informazioni di prima mano. E di essere alla fine ricevuto al Quirinale, quando i contrasti esplosero sulla già allora annosa riforma delle pensioni, come un “liberatore”. Al quale, una volta scoppiata la crisi, Scalfaro mantenne la promessa di risparmiargli le elezioni anticipate, reclamate invece da Berlusconi nella convinzione di uscirne daccapo vincitore senza più il bisogno dell’alleanza con i leghisti.

A dire il vero, i pur rilevanti contrasti sulla riforma delle pensioni, considerati i loro riflessi elettorali, alla fine divennero solo la copertura di una partita ben diversa che si era aperta, all’interno del centrodestra, fra Berlusconi e Bossi. In particolare, il primo fu sospettato e accusato dall’altro di voler fare incetta di parlamentari leghisti, preoccupati per i rischi di una crisi di governo e tentati dal mettersi in sicurezza in Forza Italia e nelle sue liste, quando si sarebbe andati alle urne.

A ventiquattro anni di distanza quella situazione torna ad affacciarsi, ma a parti rovesciate e in condizioni diversissime. Oggi è la Lega di Matteo Salvini ad essere la tentazione di tanti forzisti, che il successore di Bossi sino a qualche giorno fa si era proposto di non accogliere per non compromettere i rapporti con Berlusconi. Di cui egli è rimasto alleato, in un centrodestra a trazione leghista dopo il sorpasso elettorale del 4 marzo scorso, anche stipulando un contratto di governo con i grillini con la paradossale autorizzazione del Cavaliere. Il quale da una parte spera che l’avventura governativa gialloverde duri poco e dall’altra non vuole compromettere con una rottura anche le numerose e importanti amministrazioni regionali e di altri gradi locali gestite insieme con la Lega.

Ma questo, appunto, valeva sino a qualche giorno fa, quando è scoppiato tra i piedi di Berlusconi e di Salvini l’esplosivo della presidenza della Rai a Marcello Foa, fatto o lasciato bocciare da Berlusconi dai suoi nella commissione parlamentare di vigilanza. Allora, per reazione - si vedrà se istintiva, e perciò reversibile, o calcolata - Salvini ha rimosso l’ostacolo frapposto ai possibili passaggi da Forza Italia alla Lega.

Su questo terreno i rapporti fra Berlusconi e Salvini potrebbero davvero rompersi, come si ruppero 24 anni fa quelli fra Bossi e Berlusconi. E con conseguenze che paradossalmente potrebbero ripercuotersi anche sul governo di cui Berlusconi è oppositore. Un governo dove Salvini ha un alto potere contrattuale, ben superiore alla consistenza dei suoi gruppi parlamentari, proprio per il suo rapporto anomalo col Cavaliere, configurabile in una sua uscita di sicurezza in caso di crisi. Se le cose cambiassero, per Salvini potrebbero essere guai.