Proponiamo di seguito un ampio stralcio dell’intervista al senatore del Pd ed ex ministro dell’Interno Marco Minniti pubblicata in “Siamo davvero sicuri? Gli esperti a confronto”, libro di Massimo Montebove e Antonella Marchisella edito da Laurus Robuffo (146 pp., € 22). Nella versione integrale inserita all’interno del volume, l’intervista a Minniti è introdotta dal titolo “Il cuore delle politiche di sicurezza è garantire libertà e democrazia. Sicurezza non è solo ordine pubblico”. Ministro Minniti, la sicurezza è un bene primario costituzionalmente garantito. Lei ritiene che questa affermazione, nella prassi quotidiana, trovi concretezza? La parola sicurezza è una parola molto più complessa di quello che appare; impatta direttamente sui diritti fondamentali del cittadino. La sicurezza è un bene comune: questo è un punto centrale dal quale partire per poter declinare, concretamente, politiche atte a realizzarla. A questo fine è necessario, perciò, che i vari livelli istituzionali siano pienamente coinvolti nel compito primario di garantire ai cittadini sicurezza. Per essere più chiaro voglio dire, in concreto, che il ministro dell’Interno - tecnicamente Autorità Nazionale di Pubblica Sicurezza - in un modello di sicurezza nazionale del Paese, non può certo essere l’unico soggetto in campo. Non è pensabile, infatti, applicare politiche di sicurezza allo stesso modo in ogni città, in ogni territorio. Compito del Ministero dell’Interno è certamente quello di definire una strategia generale, un modello della sicurezza, e perseguirlo agendo sul territorio attraverso i prefetti e i comandi delle Forze di Polizia, ma occorre anche che gli stessi poteri locali, i Sindaci, si assumano pienamente una responsabilità che peraltro, uno dei due decreti cosiddetti “Minniti” affida anche a loro. Solo così, suonando i tanti tasti che compongono “il piano” della sicurezza, si garantisce quel bene comune di cui parlavo, contrastando rischi reali, ma anche quella percezione di insicurezza dei cittadini che rimane alta. Da questo punto di vista è emblematica la situazione che abbiamo di fronte: le statistiche ci dicono di una diminuzione sensibile dei reati, eppure a ciò non corrisponde una maggiore percezione di sicurezza da parte dei cittadini. Le statistiche sono importanti, certo, ma di fronte a una percezione crescente di insicurezza che arriva fino a tradursi in un sentimento di paura, la risposta non può fermarsi alla freddezza dei numeri. E qual è la risposta del Ministro al sentimento della paura? Intanto ribadisco che la paura è un sentimento, perché è esattamente di questo che si tratta. Il ministro dell’Interno deve, innanzitutto, saper ascoltare, stare vicino a coloro che hanno paura con il compito di liberarli da quella paura. Aggiungo un’altra cosa e cioè che, in fondo, la differenza tra la sinistra riformista e i populisti sta proprio in questo: la sinistra riformista lavora per stare vicino a chi ha paura per aiutarlo a superarla. I populisti lavorano, invece, perché quella paura rimanga e si diffonda. La sicurezza “è di sinistra", ha ribadito lei più volte, rompendo anche un certo tabù. È possibile realmente coniugare progresso, diritti e legalità? Sicurezza non è una parola che deve essere lasciata alla destra. Innanzitutto perché sicurezza non è solo ordine pubblico, come una certa parte della politica vuole far credere. Con i soli sistemi di contrasto - pur assolutamente necessari - non si potrà mai realizzare un’efficace politica di sicurezza. Come emerge, infatti, dai decreti che il Parlamento ha convertito, le politiche di sicurezza abbracciano molti campi, i tasti del pianoforte di cui parlavo. Per fare un esempio, per rendere sicura una piazza c’è assoluto bisogno della presenza delle forze dell’ordine, ma occorre anche che quella piazza sia illuminata, che il contesto urbanistico, l’arredo urbano, la renda fruibile davvero per i cittadini, ecc. In definitiva, il cuore delle politiche di sicurezza – e si ritorna al concetto di bene comune - è garantire libertà e democrazia. Questo è anche - per rispondere alla domanda - il cuore della sfida di una sinistra riformista. Lei conosce molto bene gli apparati della sicurezza italiani per i vari ruoli che ha rivestito nel tempo. Siamo davvero un Paese sicuro per quel che riguarda il rischio terroristico? È soddisfatto dei risultati finora ottenuti, dalle modalità con cui lo Stato italiano ha fronteggiato il terrorismo? L'Italia, già da tempo, ha innalzato il livello di allerta. Ciononostante, oggi nessun Paese può considerarsi totalmente al sicuro dalla minaccia terroristica e questo perché il livello di prevedibilità degli attentati è via via diminuito nel tempo fino ad arrivare a quello che definisco rischio a prevedibilità zero. (...)  È nato in Italia un modello di sicurezza fondato su un forte controllo del territorio e, tuttavia, in grado di non incidere negativamente sulla tranquillità dei cittadini e sulla loro libertà di fruire gli spazi pubblici, sia nella quotidianità, sia in occasione di grandi eventi. L'Italia ha città d'arte che  tutto  il  mondo ci invidia, ha tra le sue industrie principali il turismo; anche per questo non possiamo permetterci di cedere alla paura e di trasmettere all’esterno questo messaggio, ma dobbiamo mettere in campo strategie di sorveglianza e protezione - e qui torna il concetto precedente -  in pieno raccordo con gli amministratori locali, perché è nella piena armonizzazione delle politiche di sicurezza nazionali e territoriali che sta la chiave per ottenere elevati livelli di prevenzione. Ci sono, inoltre, alcuni elementi in più nel patrimonio del nostro sistema di sicurezza. L’Italia molti anni fa ebbe una intuizione assai importante: quella di dar vita al Centro Analisi Strategica Antiterrorismo, l’acronimo è C.A.S.A.; un tavolo dove, operativamente e contestualmente, siedono gli uomini delle forze di polizia e gli uomini dell’intelligence per uno scambio di informazioni in tempo reale. (...) Ad ogni azione e attacco avvenuti in Europa, abbiamo riunito il C.A.S.A per rapportarci direttamente con l’evento, tra l’altro anche attraverso la collaborazione diretta con i Paesi colpiti. Non era usuale – ma l’abbiamo fatto – che a queste riunioni partecipassero anche gli ufficiali di collegamento delle polizie dei singoli Paesi che avevano subito l’attacco. Ma ben prima del C.A.S.A., già negli anni '70, avevamo dovuto sviluppare capacità specifiche assolutamente straordinarie da parte delle forze dell'ordine che hanno consentito di sconfiggere il terrorismo interno e quello di matrice mafiosa. Questo background mi consente di affermare che il nostro Paese dispone di un modello di sicurezza all’altezza. Naturalmente, per essere efficace, questo va sistematicamente e continuamente aggiornato, ed è quello che facciamo costantemente. II binomio immigrazione e terrorismo va certamente respinto. Come possiamo però coniugare sicurezza e accoglienza? Tecnicamente non c’è un'equazione fra terrorismo e immigrazione. Esiste invece un rapporto tra terrorismo e mancata integrazione. Basta guardare quello che è avvenuto da Charlie Hebdo in poi: i protagonisti degli attentati non vengono dalla Siria o dall'Iraq; sono figli dell'Europa. Da qui la centralità del tema integrazione che va strettamente messo in rapporto con quello dell’accoglienza. L'accoglienza, infatti, ha un limite nella capacità di integrazione: compito del Ministro dell'Interno è far si che quel limite non venga mai superato. In tema di accoglienza si tratta anche di tenere ben presente che esistono due diritti da rispettare: il diritto di chi viene accolto, ma anche il diritto di chi accoglie; il presente e il futuro del nostro Paese si giocano sull’equilibrio fra queste due istanze. In questa ottica abbiamo elaborato il Piano per l’Integrazione che disegna la strategia dello Stato su questo tema. Ma abbiamo anche messo in campo un’altra iniziativa di grande rilievo: il Patto per l’Islam italiano che affronta il tema del rapporto con la religione islamica in nome della quale qualcuno - palesemente in contrasto con i principi dell’Islam stesso - agisce e uccide. Il Patto, fra le altre cose, impegna le associazioni islamiche firmatarie a costituire i cosiddetti “albi degli Imam”, ad adoperarsi affinché i sermoni del venerdì si svolgano in italiano e ad assicurare la massima trasparenza nei finanziamenti per la costruzione delle moschee; questi, come gli altri impegni sanciti nel documento, trasferiscono un messaggio fondamentale: esiste un Islam che si riconosce pienamente nei valori della prima parte della nostra Costituzione, così come è esplicitamente scritto nel Patto. La maggior parte delle associazioni dell’Islam presenti in Italia, firmando, hanno dichiarato di essere insieme musulmani e italiani. Anzi, per essere più precisi, italiani e musulmani. Ed è molto importante che questo sia avvenuto tramite uno strumento pattizio, l’adesione al quale è spontanea e volontaristica, e non attraverso uno strumento legislativo, che personalmente riterrei improprio trattandosi di sfera religiosa. L'Europa ci ha lasciato soli ad affrontare il problema dei migranti e dei profughi. L'Italia ha fatto alcuni passi in "autonomia". Pensa che sia questa la strada fattiva da percorrere? (...) Mi sono reso conto di quanto non sia sufficiente – seppure fondamentale – rivendicare un ruolo attivo dell’Europa nella gestione della crisi migratoria. Ho pensato fosse necessario dimostrare, intanto, che l’Italia fosse in grado di fare la sua parte. Abbiamo perciò optato per un progetto che rafforzasse la stabilizzazione della Libia e rendesse più incisiva la lotta ai trafficanti di esseri umani; con il Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere con la Libia, il Governo italiano e il Governo di Riconciliazione Nazionale della Libia si sono impegnati reciprocamente a cooperare su questi temi e hanno messo in campo azioni concrete. L’Europa, dandoci atto di un impegno straordinario, lo scorso 28 agosto, a Parigi,  ha condiviso questo progetto puntando a una governance del fenomeno basata su interventi concreti e positivi dall'altra parte del Mediterraneo. Sono state investite risorse - seppure in misura ancora insufficiente -  per sostenere i paesi africani nel contrasto al traffico di esseri umani e, al contempo, per alimentare forme di economia legale per sostituire quelle - assai rilevanti - legate allo sfruttamento dei flussi dei migranti. Cosa avete deciso durante l’ultimo G7 di Ischia dei Ministri dell’Interno? Il web ha una rilevanza immensa e indiscussa nella strategia del terrore, specie per quanto riguarda il reclutamento dei combattenti. Internet è uno straordinario veicolo di libertà che non può essere messo in discussione, ma per vincere la partita con il malware del terrore è diventata vitale la questione del rapporto tra le democrazie e i grandi provider del web. Questo tema è stato al centro del G7 di Taormina dei capi di Stato e di Governo e lo è stato anche al G7 dei Ministri dell’Interno dello scorso 20 ottobre. Il successo di Ischia sta non solo nell’aver raggiunto un accordo tra i nostri Paesi nella lotta al terrorismo, ma anche con i maggiori provider del mondo che ci offriranno uno straordinario supporto tecnologico; si tratta dei primi passi di una grande alleanza tra Governi e grandi provider nel nome dei principi della libertà. Un'azione comune per la raccolta e la condivisione delle informazioni (...) può diventare una straordinaria miniera d'informazioni che andranno raccolte e condivise per avere un quadro chiaro della minaccia, in particolar modo per i foreign fighters di ritorno.