Il delitto di esercizio abusivo della professione ha natura istantanea, perché non esige alcuna attività continuativa od organizzata e si realizza con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione forense abusiva.

Il solo fatto che l’agente curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato costituisce illecito, e non implica necessariamente la spendita al cospetto di un giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta. A stabilirlo addirittura ampliando la portata della previsione contenuta nella legge professionale, la 247 del 2012 - è la Corte di Cassazione, che conferma nel merito le sentenze di primo e secondo grado che avevano condannato un avvocato radiato dall’albo per aver «compiuto atti tipici della professione forense in assenza di titolo abilitativo, in particolare assumendo l’incarico di patrocinare in un negozio giuridico», «facendo firmare un foglio in bianco destinato a contenere l’atto di citazione, curando, poi, una trattativa con il legale di controparte e facendosi rilasciare, infine, un acconto sulle spese».

La pronuncia, di fatto, riconosce come principio consolidato nell’ordinamento quello secondo il quale chi si appropri anche solo di una delle funzioni tipiche di un avvocato, commette il reato di esercizio abusivo della professione. La statuizione allarga la portata della riserva di consulenza codificata dalla legge professionale. L’articolo 2, infatti, stabilisce come «sono attività esclusive dell’avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, l’assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali» e che «l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati». La recente decisione della Cassazione prescinde dal richiamo a questa norma, sul presupposto che la riserva di consulenza sia consolidata nell’ordinamento.

I giudici della Suprema corte dettagliano la nozione del reato di esercizio abusivo della professione legale, ripercorrendo i principi già sanciti dalle precedenti pronunce: «L’esercizio abusivo non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta, sicché il reato si perfeziona per il solo fatto che l’agente curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi, anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato» ; e ancora precisano che «il delitto in esame ha natura istantanea e non esige un’attività continuativa o organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata».

In buona sostanza, quindi, la Cassazione allarga la previsione della legge professionale. L’articolo 2 stabilisce che la riserva di consulenza si caratterizza con la «continuatività, sistematicità e organizzazione dell’attività» ; la sentenza, invece, considera perfezionato il reato di esercizio abusivo della professione di avvocato, anche in mancanza di tali elementi e solo in presenza di un singolo atto ( nel caso di specie rappresentato dalla raccolta di firma sulla delega e un atto di citazione firmato e non ancora redatto e mai notificato) proprio e tipico dell’avvocato.