Scena prima. In una delle sue interminabili maratone politiche Enrico Mentana segue dallo studio gli incontri delle delegazioni della destra e dei 5S con l’esploratrice Elisabetta Casellati. Esce Di Maio, dichiara di fatto morta la via di un accordo e dal Quirinale l’inviata del Tg7 registra la notizia: «Nessun fatto nuovo». Il direttore l’addenta: «Direi il contrario». La malcapitata si fa scudo del parere generale: «Questo sembra qui a tutti i colleghi». Mentana, solitamente un tipo gentile, la divora: «Dì ai tuoi colleghi che non hanno capito niente». Si è poi accertato che avevano capito benissimo.

Scena seconda. La conduttrice di Tagadà Tiziana Panella intervista dallo studio Emanuele Fiano, che sfila con tanto di fazzoletto partigiano nel corteo milanese del 25 aprile. L’esponente del Pd spiega la sua opposizione all’accordo con M5S. La giornalista lo carica con una grinta degna del Giancarlo Pajetta dei tempi combattivi: «Ma se avete fatto l’accordo con Berlusconi lo potete fare anche con M5S». «Ma lì - replica il manifestante - c’era un punto preciso di contatto». Tostissima, Panella lo liquida: «Se li cercate magari punti di contatto li trovate anche con i 5S».

Scena terza. In un egregio editoriale sul suo Huffpost Lucia Annunziata dettaglia lucidamente le ragioni per cui ogni sentiero appare precluso: anche quello, in cui confessa di non credere, dell’accordo pentastellato col pd che terrà banco ancora per una settimana o giù di lì. Però chiude sbrigativamente il pezzo vaticindando invece la nascita di una maggioranza M5S- Lega. In questo caso, però, sorvola sula spiegazione. Sarà così e punto.

Scena quarta. Dopo l’intemerata di Berlusconi contro i 5S nemici della democrazia e la risposta piccata di Salvini, nonostante i contendenti avessero subito specificato che il diverbio non implicava separazioni più o meno consensuali, Il Messaggero cita apre a tutta pagina: «Salvini prepara lo strappo». Deve averci ripensato.

Sono quattro esempi scelti a caso. Se ne potrebbero citare a centinaia. Mai come in questi cinquanta giorni e passa di crisi i giornalisti sono scesi in campo come protagonisti. Hanno affrontato a brutto muso i politici con un piglio combattivo del tutto assente dai soporiferi confronti a base di slogan preconfezionati tra i politici propriamente detti. Hanno fatto il possibile, anzi per la verità l’impossibile, per indirizzare le cose lungo il solco a loro più gradito. Stampa e Tv hanno mitragliato commenti a raffica, e sin qui nulla da eccepire. Che i media, oltre a raccontare le cose cerchino spesso con successo anche di indirizzarle, è normale, anche se non sempre positivo. Basti ricordare la legge proporzionale fucilata dal fuoco incrociato di Repubblica sul Pd e del Fatto su M5S in quanto foriera di sicura ingovernabilità. Capita che con quella legge il governo avrebbe già giurato da alcune settimane mentre avendola affossata la temuta ingovernabilità è arrivata in abito di gala. Nulla di male: errare è umano e si sa che i santoni del sistema mediatico sono sin troppo umani.

Non è una novità neppure la tendenza a cercare di guidare gli eventi contrabbandando opinioni o desideri per notizie. Però la sostituzione del racconto della realtà con le proprie previsioni, spacciate per notizie, non si era mai spinta tanto oltre. Le ricadute negative sul sistema dell’informazione sono evidenti. Un po’ meno lo sono però quelle, anche più esiziali, che colpiscono il sistema politico.

I politici, specialmente quelli potenti e che decidono davvero, non vantano di solito un gran rapporto diretto con la realtà. Vivono di fatto in un mondo a parte e quel che succede oltre il confine di quel perimetro ristretto lo sanno grazie ai sondaggi, sempre incerti e volatili, op- pure attraverso i media. Se i media sostituiscono il loro punto di vista con la realtà, i politici stessi finiscono per formare le loro strategie su fondamenta inesistenti o traballlanti.

Il caso più clamoroso è stato probabilmente proprio quello di Matteo Renzi. Nell’epoca, breve ma intensa, in cui essere renziani era più o meno un obbligo, questione di bon ton ancora prima che di convinzione, era faccenda abituale ritrovare su quasi tutte le testate le interpretazioni che dettava l’ufficio stampa, peraltro notoriamente capace, di palazzo Chigi. Così l’allora premier basava le proprie analisi sulla base di notizie e interpretazioni delle stesse che in buona misura provenivano da palazzo Chigi.

Il gioco si è ripetuto nelle ultime settimane. Il Pd, per comprensibili motivi, ha continuato a ripetere che l’accordo M5S- Lega era certo, sperando nella classifica dinamica della profezia che si avvera per il solo fatto di essere stata profetizzata. La stragrande maggioranza dei media ha raccolto quell’indicazione, confermandola anche quando i dati di fatto la smentivano. Ma quel coro mediatico ha poi convinto di Pd di essere davvero sull’orlo di quella maggioranza giallo- verde e dunque di non dover fare altro che aspettare la comoda rendita di posizione del monopoli dell’opposizione.

Insomma, non è che ci si debba cullare nella favola del giornalismo neutrale e oggettivo, chimera irraggiungibile. Però un passetto indietro, quel tanto da smettere di confondere i propri sogni e i propri convincimenti con la realtà, sarebbe opportuno.