«Spiegai tutto. Spiegai che il mio nome era semplicemente pronunciato da altri nelle intercettazioni, e che io non parlavo mai. Dissi al pm Di Matteo: mi crede? Lui rispose: no, lei non mi convince. E mi crollò il mondo addosso». Francesco Lena racconta con la voce rotta l’interrogatorio che nel 2010 segna il culmine del suo calvario, gli costerà 40 giorni di carcere e un anno e mezzo di domiciliari. Ne parla non due giorni fa al Dubbio ma alle telecamere di Canale 5 nel 2014. Racconta di un processo penale per associazione mafiosa da cui era appena uscito definitivamente assolto, ma anche di un parallelo processo di prevenzione in quel momento ancora in piedi, che lo aveva messo in ginocchio nonostante l’innocenza pluriaccertata. Sigilli a tutto, al resort “Abbazia Sant’Anastasia”, alla “Lensa costruzioni Spa” e un’altra decina di sigle di questo straordinario costruttore siciliano. Sigilli a tutto che finalmente, lo scorso 5 marzo, dopo 8 anni di calvario, sono stati revocati con il decreto depositato dalla sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo.

Respinte le richieste di trasformare i sequestri in definitiva confisca, pretese che i pm siciliani non avevano ritirato neppure dopo il robusto richiamo inflitto loro dalla Cassazione quattro, anni fa con la pronuncia definitiva del giudizio di merito: secondo la Suprema corte, Di Matteo non avrebbe neppure dovuto impugnare in appello la sentenza di primo grado, giacché nel suo ricorso non compariva un elemento ulteriore di prova che fosse uno.

La pronuncia su Lena fa storia. Non solo perché restituisce l’intero patrimonio a un uomo che oggi ha 82 anni, ma anche perché afferma un principio semplice semplice: le misure di prevenzione non possono applicarsi sulla base di una mera sproprorzione tra introiti e investimenti. Il presupposto perché si possa procedere a sequestri è che i rapporti con la mafia siano provati. Non fantasticati: provati. Non bastano periti che non ci capiscono, non bastano presidenti di sezione del Tribunale che accettano le loro perizie improbabili, non basta dire che i conti non tornano. Ci vogliono le prove dei rapporti coi criminali. Con i boss. Con Cosa nostra. Senza prove, non si porta via un patrimonio di decine di milioni di euro.

Ecco, il senso. Ma anche le parole testuali del Tribunale palermitano firmate dal presidente Giacomo Montalbano, dal giudice a latere Luigi Petrucci e dal relatore Giovanni Francolini sono comprensibilissime: «Solo una volta che, sulla base della “ineliminabile componente ricostruttiva”» secondo cui, come sancito dalla Cassazione, deve svolgersi il giudizio di prevenzione, «si possa annoverare la persona in una delle categorie di soggetti socialmente pericolosi, si potrà non solo vagliarsene l’effettiva pericolosità ma anche valorizzare l’eventuale sproporzione tra disponibilità e impieghi». D’ora in poi, a meno di capovolgere il principio così chiaramente enunciato nel decreto, non basterà ottenere dai periti dell’accusa pezze d’appoggio approssimative. Ci vorranno prove di collu- sione mafiosa. Solo dopo si passerà a valutare se c’è incogruenza contabile. Il presupposto del rapporto con le cosche, per Francesco Lena, non c’era, non c’è mai stato: lo avevano sancito già tre sentenze di assoluzione nel processo di merito. L’ultima pronunciata dalla Suprema corte l’ormai lontano 21 febbraio 2014. La Procura ha insistito nel tentare di portar via tutto a un innocente attraverso la via parallela delle misure di prevenzione. Gli avvocati palermitani Andrea Dell’Aira e Rosario Vento sono riusciti a sgombrare il campo dagli equivoci e a evitare una clamorosa ingiustizia, anche se buona parte del patrimonio è dissolto, con almeno due società già in liquidazione.

In realtà, come segnala il decreto, non c’erano neppure incogruenze contabili. C’è stato solo un esame “distratto” ( nella più benevola delle ipotesi) dei periti nominati dalla Procura. A quali il Tribunale, inizialmente diede retta, con l’accoglimento di tutte le richieste di sequestro avanzate dal pm Di Matteo tra il 2011 e il 2013. D’altra parte la sezione “Misure di prevenzione” è stata presieduta fino a pochi mesi fa da Silvana Saguto, che il Csm ha rimosso dalla magistratura. Potrebbe non essere un caso che la sentenza di annullamento dei sequestri sia arrivata ora che Saguto è uscita di scena.

Lena era accusato di avere tra i soci della sua “Abbazia Sant’Anastasia”, azienda vinicola di Castelbuono, niente di meno che Bernardo Provenzano. Una fantasia, attraverso cui i pm provarono a bollare come frutto di riciclaggio le sue fortune, che Lena in realtà aveva realizzato con i conventi e gli ospedali oncologici costruiti per i Padri rogazionisti, opere pagate con assegni dello Ior per circa 80 miliardi. La ricchezza veniva da lì. Non dal riciclaggio mafioso. Gli assegni c’erano, i periti della Procura non li videro. O fecero finta di non vederli.