Una delle notizie più clamorose del 2018 è l’arresto di Ignacio Lula, anche se i giornali non le hanno dato molto spazio. Non tanto perché è stato arrestato l’ex presidente di uno dei più importanti paesi del mondo, ma perché è stato arrestato il probabile futuro presidente. In ottobre in Brasile si vota e Lula era pronto a tornare candidato, con il favore dei sondaggi che lo davano largamente e sicuramente vincente. Lo hanno bloccato mettendolo in prigione.

Lula non è un presidente qualsiasi, è il primo presidente socialista del Brasile, è l’uomo che ha rilanciato il paese e gli ha restituito un’immagine, dopo gli anni bui della dittatura, e un periodo “opaco” di transizione, è il presidente che ha strappato alla fame alcune decine di milioni di persone, modificando in modo profondo gli assetti sociali ed economici del Brasile. E’ stato un grande riformista, nel senso antico e forte della parola, e naturalmente non è visto bene da settori larghi e potenti della borghesia brasiliana, e non solo brasiliana. L’America latina, lo sapete, è stata per decenni terra di colpi di stato e di dittature. L’ultimo tentativo di realizzare democraticamente il socialismo, in un grande paese occidentale, sapete anche questo, fu quello realizzato in Cile nei primi anni settanta. Allora la cosa fu risolta, con l’appoggio degli americani, in modo spiccio: i carri armati, l’uccisione del presidente, l’arresto di tutti i dirigenti dei partiti democratici, i campi di concentramento, le fucilazioni, circa 30 mila desaparecidos.

Quindi possiamo anche dire che stavolta è il caso di festeggiare. Lula è stato tolto di mezzo dalla corsa alle presidenziali con metodi assai meno cruenti. Un’inchiesta della magistratura, una condanna senza l’ombra di una prova e l’ordine di carcerazione, che peraltro è stato motivato dalla procura con queste parole: «Occorre evitare che il Paese abbia la sensazione che Lula sia onnipotente». Diciamo pure che l’intento golpista della magistratura brasiliana è stato dichiarato.

La vicenda è stata raccontata altre volte. La riassumo in modo brevissimo. II giudice Sergio Moro - che è un allievo e un ammiratore del pool mani pulite italiano, e in particolare del dottor Davigo - è riuscito ad ottenere la condanna di Lula in primo e in secondo grado, sostenendo che Lula avesse ricevuto un appartamento in cambio di alcuni favori concessi a imprenditori privati. Lula ha sempre negato e ha spiegato che quell’appartamento non lo aveva mai ricevuto, e che infatti non è suo, ma i giudici se ne sono infischiati, considerando irrilevante il particolare, e lo hanno condannato. In effetti l’appartamento non risulta né appartenere a Lula, né che sia mai appartenuto né a lui né a sua moglie ( che nel frattempo è deceduta). Ma i giudici hanno stabilito che comunque c’era qualcosa di poco chiaro e hanno decretato: 12 anni di carcere per corruzione. Ora si aspetta la sentenza definitiva della corte suprema, ed esistono buone probabilità che sia favorevole a Lula, perché il processo intentato dal giudice Moro contro di lui non sta in piedi. Però la sentenza arriverà dopo le presidenziali di ottobre, e Lula, con ogni probabilità, non potrà partecipare, e dunque non potrà vincere.

C’è la destra dietro la magistratura brasiliana che ha intrappolato Lula? Probabilmente sì, anche se non è mai facile capire esattamente qual è il rapporto di causa ed effetto tra politica e protagonismo ( spesso eversivo) di pezzi della magistratura. E’ difficile in Italia e tanto più in Brasile.

Appunto, torniamo un attimo in Italia, perché è stata proprio l’Italia il modello per i magistrati brasiliani.

Sabato scorso a Ivrea si è tenuto un convegno del Movimento 5 stelle che ha fatto notizia più che altro per la cacciata del giornalista della Stampa, Jacoponi, considerato dai grillini un nemico. Episodio, effettivamente, molto, molto imbarazzante. Però in quel convegno è successa anche qualche altra cosa. Per esempio la standing ovation ( alla quale ha partecipato vistosamente anche il candidato presidente del Consiglio Luigi Di Maio), ad un Pm, Nino Di Matteo, il quale ha svolto un comizio, di stampo nettamente e dichiaratamente giustizialista, che ha mosso ad entusiasmo i 5 Stelle. Di Matteo prima ha sostenuto che Berlusconi e Dell’Utri hanno trattato per 18 anni con la mafia, entrando nel merito di un processo in corso ( e nel quale lui è Pm) e che peraltro non ha Berlusconi tra gli imputati. E poi ha, dettato, sempre tra gli applausi della platea e dei capi del M5S, il programma politico sulla giustizia. Che consiste in questi quattro punti: abolizione della prescrizione ( cioè fine della prescrizione dal momento nel quale iniziano le indagini), aumento delle intercettazioni ( che attualmente è il più alto del mondo intero, dopo la caduta del muro di Berlino: le intercettazioni in Italia sono circa 100 volte più di quelle che si fanno in Gran Bretagna), aumento delle pene per i reati di corruzione, che potrebbero anche superare quelle per i reati di sangue e per gli omicidi volontari, e infine abolizione della legge Gozzini ( sugli sconti di pena) e dei vari i benefici di legge per i detenuti, compresi quelli contenuti nell’ultima riforma carceraria, che Di Matteo vuole cassare.

Non è un’esagerazione sostenere che il programma di Di Matteo sia quello di trasformare la nostra Repubblica in uno stato di polizia.

Sicuramente più simile alla Germania Orientale degli anni ‘ 70 e ‘ 80 che a qualunque altro paese dell’Europa libera.

Poi Di Matteo ha svolto anche un ragionamento meno netto ma abbastanza chiaro: ha parlato dell’indipendenza della magistratura tratteggiandola come il diritto della magistratura ad essere un corpo separato dello Stato, insindacabile e superiore a qualunque altro potere.

Ora, noi possiamo stupirci finché vogliamo se questo programma è stato accolto con un’ovazione della platea e dallo stato maggiore del più grande partito politico italiano. Possiamo stupirci, ma non dire che i 5Stelle non abbiano il diritto di sostenere il programma politico che più gli piace.

Il problema è un altro. E’ questo: secondo le attuali leggi, può un Pubblico Ministero in funzione ( che oltretutto è anche diventato il numero 2 della Superprocura antimafia) usare un’assemblea politica, e lo strumento- comizio, per condizionare un processo ancora in corso, nel quale lui svolge la funzione della pubblica accusa? Cioè, mi spiego meglio, e tralascio per un momento il problema della incompatibilità tra magistratura e politica ( detto tra parentesi Di Matteo ha invocato l’aumento dei magistrati in Parlamento): in Italia è legittimo che i processi si svolgano parallelamente in tribunale e in piazza, con la partecipazione a entrambi gli eventi dello stesso pubblico ministero? E se invece ciò non è consentito, come mai non c’è stata una sollevazione politica, come mai i 5 Stelle hanno applaudito, come mai non sono piovute interrogazione parlamentari, e in che modo intendono reagire gli organi di autogoverno della magistratura e le sue associazioni? Il Pm che ha svolto la requisitoria durante una manifestazione di un partito politico, può mantenere la funzione di pubblica accusa nel processo ufficiale?

Capisco che sono domande molto ingenue. Io le butto lì.