Certo, l’intento resta lodevole. E ne va dato atto ai due soggetti promotori dell’incontro organizzato l’altro ieri a Tivoli su “Codice antimafia e corruzione”, ovvero l’Ordine dei commercialisti e la locale Procura della Repubblica. Non del tutto prevedibile, forse, era l’esito, che ha visto prevalentemente respinte la tesi di partenza: ovvero il giudizio positivo sull’estensione ai reati di corruzione di misure finora destinate solo alla criminalità organizzata. Estensione appunto, stabilita dalla riforma del Codice antimafia.

Non si è trattato di un no “maggioritario”. Ma è molto significativo che anche in un simile contesto sia stato pronunciato dal presidente dell’Anac, Raffaele Cantone. «La scelta di esportare tutti i metodi della lotta alla mafia, rischia di minare l’intero impianto dell’istituto di prevenzione», ha detto. Così come rappresenta un segnale importante la posizione espressa da uno dei più importanti vertici della magistratura della Capitale, il procuratore generale Giovanni Salvi: «Va bene discutere di allargamento e restringimento dell’area delle misure di prevenzione, ma bisogna puntare alla legalità quotidiana, perché solo così si contrasta il clima di sfiducia e cinismo che consente alla criminalità di infiltrarsi», ha premesso Salvi. Che ha quindi sostanzialmente condiviso la perplessità di Cantone: «Le misure di prevenzione devono rimanere nel loro ambito, centrato sulla criminalità organizzata, e devono essere affiancate appunto alla gestione della giustizia quotidiana». A questo si aggiunge la valutazione del tutto destrutturante proposta dal presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara, di cui si dà conto nell’ampia intervista di queste pagine e che ha messo in discussione lo stesso presupposto dei nuovi strumenti di prevenzione: il malaffare è misurato sulla base di indicatori percettivi e fuororvianti, e per il presidente di uno dei maggiori enti di ricerca sociale italiani «sussistono fortissimi dubbi sul fatto che il nostro sia uno dei Paesi più corrotti al mondo». Il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e il suo predecessore Franco Roberti, che con i loro interventi hanno in ogni caso contribuito a conferire un elevatissimo spessore al dibattito, hanno pienamente difeso le nuove misure. E così ha fatto il procuratore di Tivoli Francesco Menditto. Ma il segnale che arriva dall’incontro, messo in piedi anche grazie alla determinazione del presidente dei commercialisti di Tivoli Gianluca Tartaro, conferma quanto meno l’ambivalenza dei cosiddetti “sequestri ai corrotti”. Sulle norme lo steso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’atto di promulgarle, ha raccomandato al governo di condurre con il massimo scrupolo quel monitoraggio sollecitato anche da una mozione approvata alla Camera. Il tema è dunque vivissimo, nonostante magistrati come Menditto insistano nel sostenere che «la confisca senza condanna» contro i presutnti corrotti rappresenti una novità positiva giacché «interviene quando ci sono gravi indizi, quando una persona è ritenuta pericolosa, e sulla base di elementi di fatto e non di sospetti». Il punto è che le misure di prevenzione si sono segnalate per la debolezza e l’arbitrio dei meccanismi che ne consentono l’adozione già prima dell’ultima riforma, come dimostrano le testimonianze di imprenditori assolti nei processi penali eppure impossibilitati a tornare in possesso dei beni. Abominio a cui si somma il rischio paventato ancora una volta da Cantone: «Esportare le misure del sistema di prevenzione ai reati non mafiosi rischia di minare l’intero impianto dell’istituto, che deve invece rispondere a una logica di eccezionalità: la nuova norma è pericolosa e rischia di essere un cavallo di troia».

Allarmi rimasti inascoltati, al pari di quelli lanciati da presidenti emeriti della Consulta come Giovanni Maria Flick. E ora che il governo si annuncia connotato dal peso dei cinquestelle, un ravvedimento pare ancora meno probabile.